il caso
Le spese pazze dei magistrati per le intercettazioni
A Pesaro tutti assolti in un processo durato dieci anni e costato quattro milioni di euro in captazioni telefoniche e ambientali
Quattro milioni di euro. Tanto è costata l’attività di intercettazione portata avanti dalla magistratura di Pesaro per un processo che ora si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati. Quattro milioni di euro che vanno ad aggiungersi ai circa duecento milioni che ogni anno lo stato italiano (cioè i contribuenti) spende per effettuare le intercettazioni richieste dai pubblici ministeri. Nel caso in questione, si tratta della vicenda dei necrofori dell’ospedale San Salvatore di Pesaro, accusati nel 2013 di intascare i soldi che le famiglie dei defunti davano per la vestizione dei loro cari, anziché versarli all’azienda sanitaria. Gli addetti alla camera mortuaria erano stati accusati anche di ottenere mance da centinaia di euro dalle ditte di pompe funebri, per indirizzare a quest’ultime i famigliari dei defunti. Non è tutto: secondo i pm di Pesaro, alcuni necrofori si erano spinti a sezionare le salme senza autorizzazione, asportando pacemaker che poi in qualche modo venivano immessi in una sorta di mercato nero.
Cinque necrofori del nosocomio di Pesaro vennero arrestati dalla Guardia di Finanza, e altre 29 persone, fra cui medici e impresari funebri, vennero indagate per peculato e truffa. La vicenda, dai tratti inquietanti, fece balzare Pesaro sulle cronache nazionali. “Pesaro, rubavano pacemaker dai cadaveri. Arrestati becchini in servizio all’obitorio”, fu il titolo di uno dei principali quotidiani nazionali.
A dieci anni di distanza i giudici hanno affermato che nulla di tutto questo era vero. La vicenda dei pacemaker rubati dalle salme si è rivelata ben presto una fake news: non c’è mai stato nessun traffico di stimolatori cardiaci, che invece venivano rimossi per essere smaltiti come rifiuti speciali come avviene dappertutto.
A rimanere in piedi era rimasta l’accusa di peculato, per le presunte somme ricevute per vestire circa 500 salme e non versate alle casse dell’ospedale. A dispetto delle cifre ipotizzate all’inizio, alla fine il danno patrimoniale causato all’ospedale era stato quantificato in 26 mila euro. In altre parole, la maxi inchiesta portata avanti per due anni dai pm con l’uso massiccio di intercettazioni telefoniche e ambientali, dal costo di quattro milioni di euro, era servita a scovare un danno patrimoniale da 26 mila euro, che poi si è rivelato pure insussistente.
Lo scorso 7 febbraio, infatti, la Corte d’appello di Ancona ha confermato l’assoluzione piena per tutti gli imputati: Antonio Sorrentino, Vincenzo Vastarella, Donatella Giunti, Domenico Pascolo, Francesco Furone e Vladimiro Dedenghi. Per sostenere la loro innocenza, i legali hanno dovuto spulciare decine di faldoni, come spiega al Foglio l’avvocato Pia Perricci, che ha assistito Vastarella. Per Perricci, la vicenda rappresenta un caso emblematico di abuso dell’uso delle intercettazioni: “Spesso e volentieri si struttura un reato sulla base di un’intercettazione, senza che ci sia uno straccio di prova”, afferma Perricci. “Se noi tutti fossimo messi sotto intercettazione, per 24 ore al giorno, sicuramente tutti saremmo messi sotto processo, perché una scemenza per telefono la diciamo tutti”. “Le faccio un esempio – aggiunge – Se io mi sfogo con un amico dicendo che una persona mi sta antipatica e la vorrei vedere morta, chi mi intercetta mi mette sotto indagine perché pensa che io sto organizzando un omicidio”.
“Le intercettazioni hanno una loro fondamentale importanza, però non possono essere l’unico strumento di indagine”, sostiene anche l’avvocato Giovanni Orciani, che nel processo ha difeso Sorrentino. “Da una telefonata si possono sentire tante cose, che possono essere interpretate in tanti modi diversi – aggiunge –. Ciò che contano sono i riscontri fattuali. Mi sembra che questo è ciò che il ministro Nordio intenda dire quando parla di riforma delle intercettazioni”.
Oltre che sull’abuso delle intercettazioni, l’avvocato Perricci auspica anche “un intervento normativo per risanare i danni provocati dal processo mediatico”: “I giornali e i media in generale dovrebbero riportare la notizia dell’assoluzione con la stessa evidenza della prima notizia sull’indagine. Questo perché il giornalista per primo deve ripulire la vita di una persona che ha subìto un ingiusto processo, ha dovuto spendere soldi in avvocati e ha visto la sua vita familiare e sociale devastata”. “Detta con parole dure – conclude Perricci – tanto mi sputtani, tanto poi mi devi ripulire”.