Foto di Roberto Monaldo, via LaPresse 

L'intervista

La scommessa del ministro Nordio contro l'Italia dello sputtanamento

Claudio Cerasa

“Le indagini? Segrete fino al dibattimento: anche le intercettazioni. La carcerazione preventiva? Cambiamo tutto. E su Bergamo…”. Come si passa dalle parole ai fatti sulla giustizia? Un colloquio con il Guardasigilli

Il punto in fondo è semplice. Come si passa dalle parole ai fatti? Come può una sana battaglia garantista diventare qualcosa di concreto? E cosa vuol dire provare a sfidare il pensiero unico giustizialista con un atto politico di governo? Abbiamo passato un’ora con il ministro della Giustizia Carlo Nordio nel suo ufficio, a Roma, al primo piano di Via Arenula, per provare a trovare qualche risposta alle nostre domande.

  

Abbiamo sfidato il ministro a passare dalle parole ai fatti su molti temi, dalla carcerazione preventiva alle intercettazioni, dalla riservatezza delle indagini all’abuso d’ufficio, e il ministro, con schiettezza, ha accettato di dialogare con noi a tutto campo. La nostra conversazione con Nordio parte da una dichiarazione di intenti, utile a definire la cornice entro la quale, nel giro di poche settimane, il governo si andrà a muovere, con l’obiettivo di portare entro la fine di maggio un solido pacchetto di riforme in Consiglio dei ministri, e la dichiarazione di intenti è questa: quando si parla di pensiero unico giustizialista, contro cui combattere politicamente, cosa si intende?

“Partiamo – dice Nordio – dal presupposto che il garantismo consiste nel non lasciare impunito il colpevole e non condannare l’innocente. Garantismo significa due cose: enfatizzazione della presunzione di innocenza e certezza della pena. Quindi chi non è garantista? Non è garantista chi vulnera la presunzione di innocenza, per esempio con un eccesso di carcerazione preventiva, con un eccesso di intercettazioni, con un eccesso di indagini non necessarie, perché anche quelle sono pene afflittive, e con un uso tendenzioso del processo mediatico. Non è garantista, poi, chi non è sensibile al fatto che il reo, una volta condannato, deve espiare la pena. E vale la pena ricordarlo sempre: la funzione della pena è la rieducazione del reo e l’affermazione dello stato, perché nel momento in cui lo stato minaccia una sanzione nei confronti di chi ha commesso un reato, se questa non viene applicata una volta, lo stato perde credibilità. E questo è criminogeno, perché allora i cittadini tendono a farsi giustizia da sé”. 

  

Il ministro Nordio, poi, fa un passo in avanti nel suo ragionamento e ci aiuta a inquadrare un tema che su questo giornale un grande giurista come Giovanni Fiandaca ha messo a fuoco con una formula efficace: la giustizia riparatoria. Una giustizia che prevede la presenza, in simultanea, di un circo mediatico-giudiziario che fa tutto il possibile affinché vi sia una sentenza mediatica che prescinda dalla sentenza reale. Chiediamo al ministro come si affronta questo fenomeno e il ministro ci offre qualche spunto interessante.

“In teoria – dice Nordio – la soluzione ideale sarebbe quella di dare alla fine delle indagini lo stesso risalto che si è dato all’inizio. Ma sappiamo che questo è meramente teorico. L’informazione di garanzia inviata a un personaggio importante occupa la prima pagina dei giornali. La sentenza di assoluzione, salvo casi rari, finisce nelle ultime con un trafiletto. Questo è un tema che riguarda la deontologia e la sensibilità dei giornalisti, ma non è ovviamente qualcosa che si può normare. Viceversa, ciò su cui si può intervenire è la rapidità del processo: più il processo è lungo e più si dilatano i tempi tra l’impatto mediatico dell’inizio dell’indagine e la fine. E si può intervenire anche su un altro fronte: la diffusione di notizie riservate durante l’indagine”.

  

Nordio fa una pausa e offre un’informazione importante. “Ho intenzione di proporre un progetto per integrare il codice di procedura penale, che dice che gli atti non sono più segreti quando il destinatario ne viene a conoscenza, aggiungendo che gli atti debbano restare segreti quantomeno fino alla disclosure finale o all’inizio del dibattimento pubblico”. Significa che, in questo nuovo contesto, l’indagato saprebbe di essere indagato lui e solo lui, e che le intercettazioni non potrebbero essere diffuse fino a che non vi è, almeno, una richiesta di rinvio a giudizio? 

“È così. Oggi la segretezza degli atti è considerata a tutela dell’integrità dei dati. La mia idea è che la segretezza degli atti debba essere considerata anche nell’interesse dell’onorabilità dell’indagato. Quindi aumentando, dilatando il bene giuridico protetto, che non è più quello soltanto della garanzia della segretezza dell’indagine, ma anche dell’onorabilità dell’imputato. In sostanza l’atto rimane segreto, non solo fino a quando l’imputato ne viene  a conoscenza, ma finché non viene fatta la richiesta di rinvio a giudizio o comunque non finisce l’indagine”. 

  

Tutto questo, chiediamo a Nordio, che tipo di impatto può avere sul futuro delle intercettazioni? “Cambierebbe qualcosa solo a livello di pubblicazione: gli atti di indagine rimarrebbero segreti, come detto, fino alla richiesta di un rinvio a giudizio. E cambierebbe anche il fatto che all’interno di un’indagine non sarebbe più possibile inserire aspetti che non hanno niente a che vedere con l’inchiesta. Occorrerà trovare una norma, e ci lavoreremo, in cui si disponga che si mettono dei paletti sui dialoghi o le situazioni realmente significativi ed essenziali per l’indagine. Per esempio, la mia idea è quella che si possano trascrivere solo quelle in cui il reato è in atto. Reato in atto significa anche che in quel momento c’è la prova non solo del reato che viene commesso al telefono, ma anche, per esempio, di una programmazione idonea in modo non equivoco a commettere un reato.

Questa norma però deve essere formulata in modo così tassativo da non lasciare più al pubblico ministero la discrezionalità. Fermo restando che alla fine queste intercettazioni, proprio perché hanno un’efficacia processuale, finiranno comunque per essere note”.

  

Nordio fa una pausa e arriva, sul tema, all’ultimo punto: limitare alcune intercettazioni. Il ministro ricorda ancora, “per la millesima e una volta”, che in ballo non vi sono questioni legate al terrorismo o alla mafia, “potremmo anche dire che non si toccano alcuni reati satellite estremamente gravi da individuare”. In ballo, dice Nordio, c’è qualcosa che riguarda la cultura giuridica del paese, e quel qualcosa Nordio lo spiega con queste parole: “Qui, in ballo, vi è anche una questione di razionalità, di spesa: ogni ufficio giudiziario non ha solo un budget, ma ha una sua dotazione fissa di personale, di materiale informatico, insomma un tot di cancellieri, di segretari, di macchine da scrivere, di magistrati. L’unica cosa che è assolutamente opinabile e che sfugge a qualsiasi controllo è la spesa per le intercettazioni. Per cui noi ci troviamo nella irragionevole situazione che per comprare un computer devi fare un lungo percorso che non sempre ha un buon esito, e poi ti trovi che quello stesso magistrato, che non riesce ad avere un computer, con la firma invece autorizza una spesa di decine di migliaia di euro. Allora, proposta: esattamente per i reati in cui è possibile l’intercettazione, ogni ufficio giudiziario ha un budget, come ha un budget per segretari o cancellieri, e viene prefissato secondo la compatibilità finanziaria del ministero che alla fine poi è quello che paga. Anche perché trovo irragionevole che spendiamo 200 milioni di euro all’anno per le intercettazioni quando poi ci mancano delle cose essenziali. Quindi ogni procura sa che deve gestire il suo budget per le intercettazioni, come sa anche che deve gestire il suo tempo”.

  

Dopo di che, dice Nordio, la questione, prima ancora che economica, è di principio: “Senza eccezioni, posso dire che la linea è questa: quando due persone parlano di una terza, l’intercettazione non sarà consentita. Non deve proprio essere trascritta. Per quel che riguarda le due persone che parlano, beh, il limite è quello dell’intimità individuale. Non esiste al mondo la possibilità che una conversazione intima possa avere una influenza nell’indagine. Naturalmente poi i giudici e i magistrati non sono dei notai, per cui ci sarà sempre una certa discrezionalità, ma quando tu cominci a mettere dei paletti stai facendo qualcosa di razionale: aiuti chi segue le indagini a concentrarsi più sulle prove che sugli applausi”.

  

Superato lo scoglio intercettazioni, il ministro arriva a toccare un tema già anticipato nei giorni scorsi sul Foglio: in che modo si può cambiare la carcerazione preventiva, combattendo gli abusi che hanno trasformato il carcere preventivo in una forma di afflizione molto spesso del tutto gratuita. Nordio annuisce, ammette che “la questione è cruciale” e sostiene di voler intervenire “con una svolta vera”. “Le richieste di custodia cautelare, salvo i casi di flagranza, dovranno essere rivolte non più al gip ma a un organo collegiale che potrebbe essere, e secondo me dovrebbe essere, quello che oggi è il tribunale del Riesame, cioè il tribunale distrettuale. Motivi? Avere una garanzia maggiore di tutela degli indagati: sei occhi vedono meglio di due. Poi fare tutto il possibile per evitare che accada quello che succede oggi, considerando che circa la metà delle persone arrestate in via cautelare viene poi rimessa fuori dalle carceri dal tribunale della Libertà. È una misura di civiltà. Ed è una misura sulla quale agiremo con forza”. 

 

Chiediamo poi a Nordio se pensa sia possibile, a proposito di pene, eliminare l’appello per l’assoluzione in primo grado, e il ministro, senza paura, dice “assolutamente sì”. E lo spiega con un ragionamento interessante. In Italia, dice Nordio, vi è il principio che l’imputato è condannato se risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio e per questo “mi dovete spiegare come puoi condannare una persona quando un giudice precedente ha giudicato l’indagato non colpevole”.

 

Naturalmente, aggiunge il ministro, “possiamo anche ammettere che la sentenza di proscioglimento possa essere sbagliata perché sono stati commessi degli errori, perché non sono state prese in considerazione delle prove o addirittura perché sono emerse nuove prove, ma in quel caso allora è meglio che il processo sia rifatto, come fanno gli anglosassoni nei pochi casi in cui lo ammettono”.

 

Davvero, chiediamo ancora a Nordio, il governo ha intenzione di rivedere la compatibilità di alcuni reati, come la tossicodipendenza per esempio, con il carcere? “Applicare la reclusione in un sistema penale integrato e moderno significa che la reclusione è l’unità di misura della pena che viene inflitta dal magistrato. Questa può essere, ed è già, convertibile in pene alternative per i reati più piccoli: potrebbe essere un domani per i reati connessi allo spaccio di stupefacenti. Ho visto con soddisfazione che il sottosegretario Delmastro ha detto – ma ne avevamo già parlato prima – che i reati connessi alla tossicodipendenza non sono i reati di mafia e quindi potrebbero avere un trattamento eventualmente differenziato. Bene, giusto”.

 

Differenziato? In che senso? Il ministro aggiunge una postilla al suo ragionamento. “Se ci sono comunità idonee dobbiamo approfittarne. Quanto agli spazi, per esempio, una caserma dismessa, per configurazione logistica, assomiglia molto a un carcere, con pochi soldi la puoi ristrutturare invece di costruire nuove carceri. Hanno grandi spazi per quello che è essenziale per il recupero di tossicodipendenti: il lavoro e lo sport. Faccio un esempio: il tossicodipendente recuperato è un non recidivo. L’abbattimento della recidiva è un tema decisivo anche per la sicurezza delle nostre città. Se ne occupa molto – e bene – anche l’ex ministra Paola Severino…”.

 

A proposito di legge Severino. Nordio è stato uno dei promotori del referendum che ambiva a modificare una parte della legge Severino, quella che rende incompatibile un ruolo in un ufficio pubblico con una condanna di primo o di secondo grado. È possibile dire che il governo agirà in questa direzione? “Tutte le norme possono essere riviste, persino quelle costituzionali. Sulla legge Severino non vi è stata omogeneità di intenti, come si è visto nel referendum. Io stesso ho patrocinato una mozione, ed è perfetto che in democrazia si arrivi a un compromesso. Quello che io ho sempre trovato iniquo nella Severino è stata l’applicazione retroattiva, perché anche se non è una norma penale, ha comunque un carattere afflittivo. Io credo comunque che prima o poi questa vada, non dico abrogata, ma  rimodulata”. 

 

Un’altra questione importante dell’agenda Nordio riguarda uno dei reati più odiati dai sindaci: l’abuso d’ufficio. L’abuso di abuso d’ufficio, per così dire, ha contribuito ad alimentare un sistema all’interno del quale l’immobilismo, sempre di più, è diventato l’unica forma di legalità consentita. Nordio dice che “se noi abolissimo il reato dell’abuso d’ufficio, il 99 per cento dei sindaci e degli amministratori comunali ci farebbe un monumento” e dice che la situazione è “diventata intollerabile”.

 

“I sindaci – dice – non temono la condanna, che non interviene quasi mai, abbiamo il due per cento di condanne per questo reato, ma temono il processo mediatico: l’iscrizione nel registro degli indagati, l’invio dell’informazione di garanzia e la diffusione della notizia per la quale il sindaco viene delegittimato non solo dai nemici, ma anche dagli amici. Addirittura qualche volta è stata impedita la candidatura di un determinato personaggio perché pendeva un processo: vi rendete conto? Aggiungo che c’è una cosa di cui nessuno parla, ma che riguarda gli stessi magistrati. L’unico reato per il quale oggi molti magistrati vengono denunciati e quindi iscritti nel registro degli indagati è proprio il reato di abuso d’ufficio. O almeno per la grandissima parte, per abuso o rifiuto di atti d’ufficio. Lo dico da magistrato: c’è un progressivo aumento di denunce fatte da cittadini che, non essendo  soddisfatti della sentenza, dicono ‘ma il magistrato non ha guardato gli atti’. Esiste una norma, secondo me errata, all’interno del Csm che impone di notificare al Consiglio superiore della magistratura i casi in cui un magistrato viene iscritto nel registro degli indagati. E questo è un vulnus per il magistrato, perché il fatto che sia iscritto nel registro degli indagati per un reato, che poi in genere è sempre questo, può compromettere il suo percorso. Mai come in questo caso, credo, sarebbe possibile costruire una grande battaglia di civiltà. Coerente, pragmatica e trasversale”. 

 

Il governo interverrà anche sulla prescrizione? Nordio dice, senza titubanza: “Sì”. “La prescrizione – è il suo ragionamento – sarà riportata alla sua funzione originaria di estinzione del reato, quindi nell’ambito del diritto sostanziale e non di quello processuale. Non voglio entrare nei dettagli, ma ci sarà. Personalmente, farei decorrere la prescrizione non da quando il reato è commesso ma dal momento in cui il reato viene scoperto. Dobbiamo ancora lavorare per arrivare a un testo condiviso, ma la direzione è quella e la prescrizione non sarà più come quella di oggi. E non sarà più come oggi anche un’altra norma  su cui credo sia importante scommettere”.

 

Quale? “La disciplina degli ignoti”. Ovvero? “Se a lei rubano un telefonino, in tutti i paesi del mondo lei va a fare una denuncia e se il colpevole non viene trovato gli atti restano alla polizia giudiziaria, cioè in caserma. In Italia, invece, si impone che la denuncia venga mandata alla procura della Repubblica che forma già un fascicolo che si chiama fascicolo contro ignoti e si prescrive che nel momento in cui si prende atto che non è stato trovato il colpevole si deve comunque archiviare il caso. E a farlo però deve essere il gip, a cui finisce il fascicolo. Tutto questo, potete immaginare, non ha valore dal punto di vista dell’impatto mediatico. Ha un valore sull’efficienza dei processi. E penso che la disciplina degli ignoti vada cambiata: mantenendola solo per i reati importanti”. 

 

Arrivati a questo punto della conversazione non possiamo non chiedere a Nordio conto di una contraddizione presente in questo governo. Nordio, notiamo, ha sempre considerato sbagliato aumentare le pene. Eppure questo governo in due occasioni, in pochi mesi, ha scelto di seguire questa logica. Prima con i rave, oggi con gli scafisti. “Io resto della mia idea. Aumentare le pene non credo abbia un effetto deterrente. Penso, per esempio, a casi come l’omicidio stradale. Avevo detto già in passato che aumentare le pene per avere un effetto deterrente sarebbe stato sbagliato. Molto semplicemente, perché quel modello non funziona. E resto dell’idea che la giustizia deve dare un segnale non di maggiore severità, ma di maggiore efficienza. Ma riconosco che in alcuni casi un aumento delle pene possa contenere un messaggio politico. Di fermezza. E il caso degli scafisti penso possa andare in quella direzione. Dopo di che, so dove vuole andare a parare direttore, è ovvio che il Nordio editorialista non potrà mai essere uguale al Nordio ministro. Ma fidatevi: non vi deluderemo”. 

 

Provochiamo ancora il ministro: c’è qualcosa che il Nordio ministro considera non negoziabile rispetto ai pensieri espressi in passato dal Nordio editorialista? “È chiaro che prima di esercitare questa carica ci sono stati dei colloqui sia ovviamente con l’onorevole Meloni sia con i responsabili del partito sui programmi. Ed è chiaro che se i programmi fossero stati diversi rispetto a ciò che il Nordio editorialista pensava non ci sarebbe mai stato un Nordio ministro. Naturalmente, come in tutte le cose, la politica necessita anche di compromessi. Detto questo, non mi viene in mente alcun tema sul quale il Nordio editorialista potrebbe dire al Nordio ministro di non sentirsi a casa in questo governo. Nessuno, zero”. 

 

Le riforme di questo governo, sulla giustizia, sono di destra o di sinistra? “Credo siano trasversali, di buon senso. Ricordo un libro scritto con Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano, in cui anche egli sosteneva la necessità di ‘prevedere in presenza di una richiesta di ordinanza di custodia cautelare che la decisione venga presa da un organo collegiale’. In senso generale, credo che sul tema del garantismo vi sia un grande equivoco. Io mi sono sempre stupito che la sinistra avesse assunto in questi ultimi trent’anni proprio queste posizioni giustizialiste. Perché, per tradizione la sinistra sta dalla parte del più debole. E il più debole quando c’è un processo è sempre l’imputato. Che sia ricco o che sia povero”.

 

E allora, chiediamo ancora a Nordio, in che cosa si differenzia un giustizialista di destra da uno di sinistra? “Io credo che la cultura di sinistra giustizialista sia divenuta tale durante Tangentopoli, per una questione di pura opportunità politica. Con Tangentopoli è riuscita a eliminare l’avversario storico, la Democrazia cristiana, che non era mai riuscita a eliminare dal punto di vista politico, e anche negli anni successivi ha usato questa strategia per demonizzare i propri avversari”. E il giustizialismo di destra? Il principio della cultura giustizialista di destra, dice Nordio, è che “la pena abbia una efficacia deterrente, intimidatoria”. Io invece, dice ancora il ministro, “considero la pena come necessaria per l’affermazione dello stato. Una volta che lo stato la afferma, la deve applicare, perché sennò perde autorevolezza”. 

 

Alla fine della nostra lunga chiacchierata chiediamo al ministro cosa ne pensi di casi come quello di Bergamo in cui la giustizia, dal nostro punto di vista, sembra essere interessata più alla volontà di rispondere al dolore che alla volontà di cercare delle prove. Una giustizia che va in questa direzione, dice Nordio, rischia di “alterare quella che è la funzione della legge penale”. Il codice Vassalli, ricorda il ministro, è stato introdotto facendo leva su un’idea: “Il giudice non giudica i fenomeni, giudica i fatti e le persone. Deve soltanto accertare se c’è un reato, se è stato commesso e se è stato commesso con dolo, colpa, preterintenzione, o semplicemente per caso fortuito. Questo è il compito del giudice. Aggiungo che quando il giudice vuole trasformarsi in storico, storico della politica, storico della medicina, storico di chicchessia, fallisce, perché non ha né la preparazione né gli strumenti per dare dei giudizi di questo tipo. E quindi, ripeto, è una alterazione della funzione della legge penale”.

 

Eppure, la domanda risulta evidente a questo punto: un magistrato che tende a occuparsi più di fenomeni che di reati come può essere disincentivato ad andare in quella direzione? Un modo, secondo Nordio, c’è: “È quello della valutazione di professionalità del magistrato, cosa che fino ad ora non è mai stata fatta, perché non si è mai potuto o voluto valutare la capacità del magistrato in funzione dei risultati che ottiene”.

 

Noi, dice Nordio, non vogliamo arrivare a livelli come quelli presenti nell’ordinamento anglosassone, ma vogliamo promuovere un principio di cui il Csm dovrebbe fare tesoro: fare una statistica di quante indagini sono state portate a compimento, quanto tempo sono durate. Oggi questo non succede. E “penso che una giustizia seria sia quella che si dota di strumenti utili per non aver paura di giudicare non solo gli altri ma anche se stessa. La rivoluzione culturale, quando si parla di garantismo, in fondo passa anche da qui. Vedrete, non vi deluderemo”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.