Il caso Shalabayeva non fu un sequestro di persona ma un “romanzo” senza prove
Depositate le motivazioni dei giudici che hanno assolto tutti gli imputati per la vicenda dell'espulsione della donna kazaka nel 2013: “Accusa lunare e incomprensibile"
Un “romanzo” senza prove, fondato su un’accusa “lunare, incomprensibile” e “radicalmente insostenibile”. Sono solo alcune delle espressioni utilizzate dai giudici della corte d’appello di Perugia nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 9 giugno, hanno assolto con formula piena gli imputati accusati di presunte irregolarità nell’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, avvenuta nel 2013. Gli imputati (che in primo grado erano stati condannati) erano l’allora capo dell’ufficio immigrazione della questura di Roma, Maurizio Improta, i funzionari Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, il capo della Squadra Mobile, Renato Cortese (il super poliziotto artefice della cattura del boss di Cosa nostra, Bernardo Provenzano), i funzionari dello stesso ufficio, Luca Armeni e Francesco Stampacchia, e il giudice di pace Stefania Lavore. Tra le accuse formulate dai pm nei confronti dei poliziotti vi era anche quella di aver compiuto un sequestro di persona, un “rapimento di Stato”.
Tutto cominciò il 28 maggio 2013, quando la polizia su richiesta dell’Interpol condusse una perquisizione in una villa di Casal Palocco a Roma dove si riteneva che si trovasse il marito di Shalabayeva, l’ex banchiere Muktar Ablyazov, latitante in ambito internazionale. Quest’ultimo non venne trovato, mentre venne fermata la moglie, che si fece riconoscere con un documento contraffatto intestato ad Alma Ayan. Essendo sprovvista di un titolo regolare per rimanere in Italia, la donna fu accompagnata al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria. Da lì venne rimpatriata insieme alla figlia con un aereo dell’ambasciata kazaka.
La vicenda fece deflagrare uno scandalo mediatico-politico che travolse il governo italiano (in particolare il ministro dell’Interno Angelino Alfano), accusato di aver espulso la moglie di uno dei principali oppositori del regime di Astana, esponendola al rischio di persecuzione politica.
In verità, come sottolineato ora dai giudici d’appello, Shalabayeva non presentò mai documenti autentici né chiese asilo politico. Per queste ragioni, quell’operazione di polizia fu completamente legale. “La persona di cui si procedette all'identificazione, che disse di avere nazionalità centrafricana ma emerse essere kazaka, era regolare in Italia, sulla base dei dati disponibili e che furono valutati dagli imputati? La risposta è no”, scrivono i giudici. Ciò, unito all’uso di un documento falso “ne impose l’espulsione, a quel punto da eseguire solo mediante rimpatrio in Kazakhistan”.
I giudici evidenziano come “le scelte della donna siano state sempre condizionate dalla preoccupazione di non danneggiare gli interessi del marito, a partire da come ella si relazionò con gli operanti all’atto della prima perquisizione (quando comprese benissimo che la polizia stava cercando lui, e si guardò bene dall’ammettere di esserne la compagna)”. Poche erano, inoltre, le notizie circa lo status di perseguitato politico di Ablyazov (noto piuttosto come ricercato per reati economici, per i quali è stato condannato anche nel Regno Unito), così come per i giudici non vi erano elementi per ritenere che in Kazakhistan si praticasse una violazione sistematica dei diritti umani. Su questo, nelle motivazione viene citata una deposizione dell’ex capo della Polizia, Alessandro Pansa, secondo il quale nel 2013 “dal comitato Onu per i rifugiati non erano pervenute segnalazioni negative su quello stato”.
Insomma, per i giudici la verità è che Shalabayeva “fu clamorosamente arbitro del proprio destino, perché soltanto decidendo di esibire uno dei documenti validi di cui era titolare e che invece rimase nelle sue tasche (o in quelle dei suoi difensori) avrebbe subito bloccato qualsivoglia piano malevolo che oggi pretende di descrivere come ordito ai suoi danni su scala internazionale”.