Assolto dopo tre anni di carcerazione preventiva: non era mafioso
L'incredibile storia dell'imprenditore calabrese Antonio Rodà, arrestato nel 2019 con accuse di mafia. Lo scorso 24 marzo il tribunale di Locri lo ha assolto, disponendo la sua scarcerazione. "Chi mi ridarà gli anni persi?", dice al Foglio
Ha trascorso tre anni, tre mesi e dodici giorni in custodia cautelare in carcere, accusato di far parte di un’associazione mafiosa. Al termine del processo i pm avevano chiesto per lui una condanna a 15 anni di reclusione. Lo scorso 24 marzo il tribunale di Locri lo ha assolto da ogni accusa (insieme ad altri sei imputati), disponendo la sua scarcerazione. Protagonista dell’incredibile vicenda è Antonio Rodà, originario della Calabria ma residente da quasi trent’anni in Toscana, nel piccolo comune di Sansepolcro (Arezzo). La colpa di Rodà, imprenditore nel settore florovivaistico, è stata quella di aver avuto contatti, per motivi di lavoro, con alcuni corregionali nel mirino della Direzione distrettuale di Reggio Calabria per possibili legami con la ‘ndrangheta.
Rodà fu arrestato il 12 dicembre 2019. “Vennero a prendermi a casa alle tre e mezza del mattino”, racconta ora al Foglio. “Mi stavo preparando per andare al lavoro, al mercato. Le forze dell’ordine hanno pensato che io mi fossi tenuto pronto perché sapevo che mi avrebbero arrestato. Semplicemente nella mia vita ho sempre solo pensato a lavorare”.
L’arresto di Rodà e di tutti gli altri imputati venne annunciato in una conferenza stampa congiunta tenuta dal procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, insieme al procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. In coordinamento tra loro, gli uffici avevano infatti lanciato operazioni contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Toscana e Umbria. Quella catanzarese venne denominata “Infection”, quella reggina “Core Business”. In tutto venne data esecuzione a 27 provvedimenti restrittivi e al sequestro di beni per un valore di circa 10 milioni di euro. Il nome di Rodà finì sui principali organi di informazione nazionali.
Tre anni e tre mesi dopo lo sputtanamento e la carcerazione, ecco l’assoluzione, nel silenzio generale. “La domanda che mi facevo costantemente in carcere era: perché? Perché sono qui?”, afferma Rodà. “Per far sì che la detenzione fosse meno afflittiva – aggiunge – mi sono iscritto all’università in scienze gastronomiche. Mi tenevo impegnato con un terreno che avevamo in dotazione, producevamo ortaggi, zafferano, prodotti di stagione”.
L’imprenditore ha sempre creduto che la verità prima o poi sarebbe emersa, ma ha dovuto attendere più di tre anni, con tutto ciò che ne consegue. “La mia attività commerciale è stata pesantemente danneggiata dalla vicenda, se è rimasta in piedi è solo grazie ai miei famigliari”, afferma Rodà. “Io so solo che avevo 66 anni, oggi ne ho 70, chi mi ridarà gli anni che non ho potuto vivere e trascorrere con la mia famiglia?”, si chiede.
Qualora la sentenza di assoluzione non venisse impugnata dalla procura e passasse in giudicato, Rodà – difeso dagli avvocati Lucio Massimo Zanelli e Francesco Calabrese, che hanno lavorato assieme al collega Mario Mazza, difensore dei coimputati – valuterà la richiesta di un indennizzo per l’ingiusta detenzione subita. “Se come legale non posso che rallegrarmi della decisione del tribunale di Locri – dichiara l’avvocato Zanelli – come cittadino non posso che rammaricarmi del fatto che dei connazionali hanno subito l’onta di un processo penale per fatti non costituenti reato. Procedimento penale che ha avuto e avrà anche nel futuro ripercussioni sulla dignità, l’onore degli imputati e delle loro famiglie, senza dimenticare che tre dei sette imputati sono stati oggetto di detenzione cautelare in carcere”.
Per il legale di Rodà, “il caso in esame deve far riflettere la politica sul fatto di considerare prioritaria una riforma in ordine all’utilizzo da parte della magistratura delle misure cautelari detentive, quale forma idonea a combattere ogni tipo di associazione a delinquere”. “Combattere la mafia, la 'ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita ecc., a colpi di decreti di carcerazione preventiva, se non utilizzati in maniera oculata sulla base di seri, gravi e fondati indizi di reità, può produrre l’effetto inverso a quello auspicato e cioè avvicinare le persone indagate, imputate e poi assolte all’ambiente di quelle associazioni a delinquere che si vogliono combattere”, conclude Zanelli.