storytelling di una strage
Le 1.472 pagine di motivazioni del processo Bellini e il solito doppio stato smentito dai fatti
La trama ipotetica che lega l'attentato alla stazione di Bologna, Piersanti Mattarella e il rapimento di Aldo Moro. La leggerezza dei fatti
Emanuela Orlandi non c’è. Una mancanza persino notevole, visto che nelle 1.472 pagine delle motivazioni per il “processo Bellini” relativo alla strage di Bologna, i giudici della Corte d’assise di Bologna non si sono fatti mancare nulla dello storytelling del “doppio stato”: da Moro all’omicidio di Piersanti Mattarella, da Ustica a Pecorelli, da Sindona a Pinelli. Il Grande Disegno Eversivo all’italiana, tutto spiegato (finalmente). Tranne la povera Emanuela. Il processo Bellini (sono stati condannati anche altri due imputati per depistaggio) è il quinto per la strage. Le condanne sono chiare e definitive, ma attorno aleggia il famoso occulto, il non detto, che è la passione degli estensori di motivazioni. Sia chiaro, non c’è motivo per dubitare che sia giusta la condanna all’ergastolo per il “quinto uomo” della strage, Paolo Bellini. E se i giudici hanno ottenuto anche la “precisa ed eclatante prova” della responsabilità di Licio Gelli (et alii) quale mandante – il riferimento è al “Documento Bologna” emerso anni dopo nel processo per l’Ambrosiano – non c’è che da rallegrarsi: per la giustizia e per la verità storica. A questo servono i tribunali.
Ma come capita spesso nel nostro paese, soprattutto in sede “narrativa” delle motivazioni (laddove dovrebbe essere esplicativa) c’è un’incontenibile tendenza a trasformare gli atti in una rilettura della storia nazionale. E qui più che in altri casi prevale la volontà, per nulla necessaria, scopo del processo era giudicare l’ultimo degli esecutori materiali, di spiegare decenni di storia come un unico romanzo criminale. Titolo: “Il doppiofondo della Repubblica”. Dunque storytelling, con nuove trame: anzi sono trame vecchie e smontate in precedenti processi, ma episodi da meritarsi i titoli dei giornali. Cosa c’è di più intrigante di legare la strage di Bologna all’omicidio di Piersanti Mattarella e a quello di Aldo Moro? L’omicidio del presidente della regione Sicilia, 6 gennaio 1980, fu uno dei più gravi attentati dell’intera storia della guerra tra mafia e istituzioni. Nel 1995 furono condannati, come mandanti, tutti i principali boss di Cosa nostra. Nonostante piste e sottopiste, furono invece assolti Valerio Fioravanti e Massimo Carminati, terroristi neri. Ma che importa? E’ l’intreccio tra Nar, P2 e banda della Magliana che conta: “Come non ricordare, anche se i processi si sono conclusi con sentenze assolutorie, i delitti Pecorelli e Mattarella… per i quali diverse testimonianze hanno indicato tra i responsabili Fioravanti e Carminati (peraltro assolti)”. Peraltro. Gran parte delle motivazioni raccontano il contesto, il sottotesto. Si utilizzano le ricostruzioni di consulenti, si torna alle “nuove” piste sul delitto Mattarella, per concludere poi che “in definitiva il proscioglimento dei due Nar” deriva dal fatto “che quegli stessi collaboratori sono stati smentiti in relazione alle accuse ad Andreotti per l’omicidio Pecorelli”.
Che senso ha dunque ricamarci sopra, in sede di motivazioni di una sentenza? Invece, scrivono i giudici, “al di là dell’assoluzione, è corretto recuperare in questo processo gli elementi (plurimi e gravi) che esistevano a carico degli imputati”, perché “l’eliminazione di Mattarella dopo quella di Moro… era indispensabile per eliminare un irriducibile ostacolo ai piani della P2 e di Cosa nostra”. Nulla o quasi che abbia una conferma processuale, e forse per dei magistrati dovrebbe significare qualcosa. Ma nello storytelling non manca niente, nemmeno il “collegamento tra gli uomini del gruppo palermitano di Terza posizione e ambienti dell’esoterismo paramassonico”; si dà conto dell’ordine martinista e di quello teutonico, del “rito di Memphis e Misrai”. Tutto concorre a unire i fili di un racconto ipotetico che, prima di giungere alla stazione di Bologna, doveva per forza passare per via Fani. Che ovviamente è trama dello stesso Gelli. E’ straordinario, un lapsus davvero straordinario, che quando i giudici si avvicinano all’argomento (e siamo ancora a pagina 480) appaia l’espressione “questo terrorismo ‘rosso’”, scritto tra virgolette, mentre “terrorismo di destra”, poche righe sotto, è senza virgolette. Ma è “del tutto evidente” in questa narrazione che la strage di Bologna diventi “il consueto tentativo, questa volta riuscito definitivamente, di influire sulla politica nazionale attraverso la strage indiscriminata per chiudere definitivamente con il passato resistenziale del nostro paese”.
Un piano che a Palermo e Bologna era stato affidato alla manovalanza dei terroristi neri, mentre in via Fani “il terrorismo rosso aveva contribuito con l’operazione Moro”. Letterale: il terrorismo rosso “aveva contribuito”. Per il caso Moro ci sono state cinque inchieste e quattro processi a sentenza definitiva, furono condannati pressoché tutti i capi delle Br. Questo, per dei giudici, dovrebbe pur dire qualcosa, qualcosa in più di “un contributo”. Ma lo storytelling della Corte d’assise di Bologna vola alto. Oltre.