giustizia
Il flop del processo Ubi Banca: assolti 31 imputati su 31
La Corte d'appello di Brescia ha confermato le assoluzioni per tutti gli imputati del processo Ubi Banca: non ci fu nessun ostacolo alla vigilanza
Trentuno imputati assolti su trentuno. E’ ciò che rimane del processo Ubi Banca, incentrato sull’accusa di ostacolo alla vigilanza nell’ambito della fusione tra la bresciana Banca Lombarda e Piemontese e la bergamasca Banche Popolari Unite, trasformate nel 2007 in Ubi Banca (oggi parte di Intesa Sanpaolo). Lunedì la Corte d’appello di Brescia ha confermato le assoluzioni di primo grado pronunciate dal tribunale di Bergamo l’8 ottobre 2021. In primo grado erano stati assolti trenta imputati su trentuno, tra cui Giovanni Bazoli (presidente emerito di Intesa Sanpaolo e fino al 2012 nel consiglio di sorveglianza di Ubi), Victor Massiah (ex amministratore delegato di Ubi) ed Emilio Zanetti (ex presidente del consiglio di gestione di Ubi). Il pm Paolo Mandurino, che ha rappresentato l’accusa nel primo grado e anche in appello, aveva impugnato la sentenza in appello, chiedendo la condanna per undici imputati. La Corte d’appello di Brescia ha invece confermato le assoluzioni, accogliendo anche il ricorso di Franco Polotti, unico condannato in primo grado a un anno e sei mesi per conflitto di interessi e assolto in appello. Insomma, fatto trenta è stato fatto trentuno. Non solo. I giudici di appello hanno anche accolto il ricorso degli imputati che in primo grado erano stati prosciolti per intervenuta prescrizione, assolvendoli perché il fatto non sussiste.
L’inchiesta che ha portato a questo processo, iniziata quasi nove anni fa, ipotizzava la commissione del reato di ostacolo alle funzioni di vigilanza di Banca d’Italia e Consob per i presunti patti parasociali tra le componenti azionarie di Bergamo e Brescia nell’iter che diede vita a Ubi Banca e di quello di traffico di influenze illecite per quanto accaduto in occasione dell’assemblea del 20 aprile 2013 che rinnovò le cariche del consiglio di sorveglianza. Secondo i magistrati, vennero raccolte deleghe in bianco, sia attraverso la struttura e le filiali della banca sia attraverso strutture esterne per garantirsi il voto desiderato. Tutto smentito dai giudici, sia in primo grado, sia ora in appello.
Come era stato evidenziato dal tribunale di Bergamo, infatti, dagli atti emergono le prove di un “costante rapporto dialettico” tra Banca d’Italia e gli azionisti nelle fasi decisive della fondazione di Ubi. Insomma, “nessun patto fu tenuto all’oscuro degli organismi di vigilanza del sistema bancario e di quello di Borsa”, anche con riferimento al ruolo svolto dall’Associazione Banca Lombarda e Piemontese. In altre parole, Ubi non venne alla luce e tanto meno divenne grande in virtù di manovre e accordi occulti: “L’ipotesi accusatoria è destituita di fondamento, senza necessità di approfondire i ruoli soggettivi rivestiti dagli imputati nel corso dei processi dialettici tra la Banca e le autorità di vigilanza”, avevano scritto chiaro e tondo i tre membri del collegio giudicante di primo grado.
“Questa ennesima sentenza di assoluzione, perché il fatto non sussiste, mette una pietra tombale su una vicenda che neanche avrebbe dovuto cominciare”, dichiara al Foglio l’avvocato Filippo Dinacci, legale di Zanetti e di Giuseppe Calvi, ex vicepresidente del consiglio di gestione di Ubi. “Purtroppo – aggiunge – soprattutto negli ultimi tempi assistiamo a tantissimi processi per ostacolo alla vigilanza, quando in realtà gli organi vigilanti sono stati perfettamente informati o meglio, sul piano penalistico, spesso si confonde l’omessa informazione con la mancata comprensione da parte dell’organo vigilante”.
L’avvocato Dinacci sottolinea anche un altro aspetto: “Di processi per il reato di ostacolo alla vigilanza ne ho seguiti tanti, ma in casi in cui la condotta di ostacolo era diretta a coprire grosse operazioni economico-finanziarie. Viceversa, nella vicenda Ubi Banca non è circolato un euro; l’elemento ostacolato sarebbe stato la forma di governance. Ma bisogna stare attenti, perché se si spinge troppo su un’applicazione estensiva si corre il rischio di pervenire a surrettizie forme di sindacato del giudice penale sull’attività di gestione societaria, con evidenti riflessi sull'autonomia del governo societario e della vita economica del paese”.
La riforma Cartabia del processo penale ha stabilito che sia il pm che il giudice dell’udienza preliminare devono fondare il loro agire sulla regola della ragionevole previsione di condanna. Inevitabile chiedersi se, con questa novità, il processo Ubi non sarebbe mai nato. “Sicuramente questo principio avrebbe aiutato molto – risponde l’avvocato Dinacci – ma ritengo che, in via generale, il filtro dell’udienza preliminare nonché delle archiviazioni non ha mai funzionato non solo per un problema normativo, ma anche a causa di un atteggiamento culturale. Nel corso degli anni rispetto alle accuse formulate hanno preso piede funzioni ‘notarili’ che demandavano al giudice del dibattimento ogni decisione. E’ ovvio che con questa nuova regola del giudizio il giudice gode di maggiori marigini di valutazione, anche se occorre ricordare che si è in presenza di una prognosi e non di una diagnosi: in altre parole il giudice deve valutare non l’esistente ma quello che potrebbe essere. Si tratta comunque di una forbice interpretativa molto aperta”.
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