La via dei peccatori
L'antimafia stracciona della preside di Palermo e quella che avvelena pozzi e processi
Daniela Lo Verde, preside di una scuola ovviamente intestata a Giovanni Falcone, è stata arrestata ieri su ordine della procura europea con la pesantissima accusa di peculato e corruzione. Storia, origini e malefatte dei grandi moralizzatori antimafia finiti moralizzati
Quando i corleonesi di Totò Riina spargevano sangue e terrore lungo le vie di Palermo, “l’antimafia delle coscienze”, si chiamava così, appendeva sui balconi le lenzuola bianche per gridare in faccia a quegli assassini il proprio disgusto e la propria protesta. E quando il tritolo di Cosa nostra fece saltare per aria Giovanni Falcone e, a cinquanta giorni di distanza, Paolo Borsellino, un oceano di gente si riversò alla camera ardente, addobbata tra i marmi del Palazzo di giustizia, per rendere omaggio ai due magistrati massacrati a Capaci e in via D’Amelio con i loro uomini di scorta. Sono state le uniche fiammate della cosiddetta società civile. Le uniche immagini di un’antimafia apparente, riconoscibile, spontanea e popolare.
Poi sono intervenuti i professionisti dell’antimafia. Leonardo Sciascia, con la saggezza mite e all’un tempo implacabile dello scrittore illuminato, li riconobbe e li sbeffeggiò. Ma loro non mollarono la presa. Sparsi nei palazzi della politica e nelle stanze delle procure cominciarono a costruire carriere e a imbastire processi sempre più temerari.
A uso e consumo, va da sé, di quel circo mediatico-giudiziario che li avrebbe trasformati in personaggi influenti. O in santoni, comunque riveriti e intoccabili.
E’ finita però anche quella stagione. Ora siamo ai rimasugli. All’antimafia stracciona che mentre predica legalità finisce per rubacchiare il cibo destinato alla mensa degli studenti o i computer che avrebbero dovuto aiutare i ragazzi dello Zen, il quartiere più disperato di Palermo, a uscire dal ghetto della propria miseria e della propria marginalità. Daniela Lo Verde, preside di una scuola ovviamente intestata a Giovanni Falcone, è stata arrestata ieri su ordine della procura europea con la pesantissima accusa di peculato e corruzione. Anche lei, come i professionisti denunciati da Sciascia, si credeva intoccabile. Ogni volta che i vandali dello Zen prendevano di mira la scuola, anche solo per rompere i vetri delle finestre o sfondare una porta, lei interveniva pubblicamente per accendere “le luci della legalità” su una periferia della città dimenticata da Dio e dagli uomini. Era diventata un simbolo. Una pasionaria. Al punto che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’ha nominata nel 2020 Cavaliere della Repubblica per il “suo impegno di alto valore sociale in favore degli ultimi”.
Con gli onori sono arrivati però anche i soldi. E con i soldi le tentazioni. Per aiutare la scuola dello Zen si sono sbracciati un po’ tutti, dal comune alla regione. Ma si è sbracciata soprattutto l’Europa. Che ha finanziato particolari corsi di formazione, da tenersi alla “Giovanni Falcone”, e ha dato in mano alla preside contributi a fondo perduto – qualcosa come 600 mila euro – per l’acquisto di tutto ciò che poteva essere utile per tirare fuori i ragazzi dall’inferno di una periferia abbandonata a se stessa e, ahimè, anche allo spaccio della droga. Una grazia di Dio che Daniela Lo Verde considerava però roba propria. Da dividere al massimo con il vice preside Daniele Agosta, finito anche lui ai domiciliari. Un peccato di gola – o di ingordigia: scegliete voi – nel quale l’antimafia cade, purtroppo, sempre più spesso. Ricordate Silvana Saguto, giudice supremo del Tribunale di Palermo per le misure di prevenzione, che aveva trasformato le aziende sequestrate ai mafiosi in un colossale business per la sua famiglia e per una ristrettissima cerchia di amici e parenti? Come tutti gli intoccabili, Silvana Saguto credeva di potere strafare e cominciò a sequestrare anche i patrimoni di imprenditori che con la mafia non c’entravano nulla. Ma, per quanto impensabili e azzardate, siamo pur sempre in presenza di ruberie. L’ultima sentenza di Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio, quella che ha ucciso Paolo Borsellino, certifica invece per iscritto che l’antimafia – con i suoi apparati, le sue anime belle, le sue ambizioni – è andata ben oltre il mercimonio di Silvana Saguto o l’accattonaggio di Daniela Lo Verde. Ha creato a tavolino un mostro e lo ha crocifisso per quasi trent’anni con un cinismo che, solo pensarci, fa venire i brividi. Quel mostro, costruito con le infamità dei pentiti e di altri compiacenti mistificatori, si chiama Bruno Contrada: ha 91 anni e al tempo dell’attentato – siamo nel luglio del 1992 – era vicequestore di Palermo. La prima bugia che hanno messo in circolo è stata questa: al momento della strage Contrada era lì, nell’inferno di via D’Amelio. E sull’onda di questa bugia, ovviamente legata al sospetto che lui avesse trafugato l’agenda rossa dove il magistrato ucciso annotava i suoi incontri, hanno inventato la comoda teoria in base alla quale i servizi segreti deviati avrebbero coperto le nefandezze dei boss stragisti.
Povero Contrada. L’antimafia – quella degli investigatori felloni e dei giudici in carriera – gli ha appiccicato addosso un’accusa di mafia. Che era una menzogna. E in base a quell’accusa lo ha incarcerato, umiliato e costretto per trent’anni a difendersi in processi senza capo né coda. Quell’antimafia gli ha rubato la vita. Altro che le miserabili ruberie di Daniela Lo Verde, Cavaliere della Repubblica e preside dello Zen.