Il caso
Davigo ancora di più nei guai nel processo a Brescia
Si complica la posizione dell'ex pm di Mani pulite, imputato per rivelazione di segreto d'ufficio, dopo le testimonianze rese in aula dall'ex consigliere del Csm Alessandro Pepe e dall'aggiunto milanese Laura Pedio
Si è ulteriormente complicata la posizione di Piercamillo Davigo nel processo che lo vede imputato a Brescia con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Nell’udienza di ieri è stato ascoltato come testimone, tra gli altri, Alessandro Pepe, ex consigliere del Csm ed ex coordinatore della corrente Autonomia e Indipendenza, fondata dall’ex pm di Mani pulite. Anche lui, come altri componenti del Csm, ha riferito di aver saputo da Davigo dell’esistenza dell’indagine sulla presunta loggia Ungheria e del presunto coinvolgimento di Sebastiano Ardita (oggi parte civile nel processo). “Nell’estate 2020 incontrai Davigo – ha affermato Pepe – e mi disse, nel cortile del Consiglio: ‘Stai lontano da Sebastiano Ardita, c'è una brutta indagine su di lui, non ti fidare’”. Ma non è tutto.
Anche Pepe, come altri testimoni, ebbe la sensazione che Davigo sapesse dell’esistenza dell’indagine su Ungheria ben prima che Storari gli consegnasse i verbali secretati di Amara nell’aprile 2020. In aula, Pepe ha raccontato di una riunione del gruppo associativo che si tenne nel febbraio 2020. Quando Davigo entrò nella stanza “con un’interlocuzione abbastanza violenta” chiese ad Ardita cosa volesse fare sul voto del procuratore di Roma e Ardita rispose: “Penso che voterò Creazzo”. Una risposta che provocò una dura reazione: “Se tu non voti Prestipino sei fuori dal gruppo”, disse Davigo. “Si creò un momento di tensione – ha raccontato Pepe –, noi tutti restammo raggelati. ‘Hai qualcosa da nascondere, qualcosa che ci devi dire? Ne parleremo tu e io dopo’, disse Davigo in modo aggressivo, urlando. A quel punto Ardita andò via e Davigo disse che qualunque voto non a favore di Prestipino era un modo per stare con quelli dell’hotel Champagne”. “Col senno di poi ho pensato che Davigo sapesse già qualcosa”, ha detto Pepe.
Oltre a Pepe, nell’udienza di ieri è stata ascoltata anche il procuratore aggiunto di Milano, Laura Pedio, che con Storari raccolse le dichiarazioni di Amara sull’esistenza della presunta loggia Ungheria. Pedio ha raccontato che i rapporti con Storari e il procuratore capo Francesco Greco furono “assolutamente sereni, distesi”, almeno fino all’aprile 2021. “Il disappunto, i muri di gomma che Storari ha riferito nelle sue deposizioni sono venuti fuori dopo l’aprile del 2021, dopo che è emerso che aveva consegnato questi verbali” a Davigo, ha affermato Pedio.
Quando le è stato chiesto se la presenza di 47 nomi di magistrati in quei verbali resi da Amara avesse richiesto di comunicare al Csm l’esistenza di quella inchiesta segreta, Pedio ha risposto senza tentennamenti: “No. Mandare quei verbali al Csm, che era proprio l’organo che la loggia segreta voleva condizionare nel funzionamento, voleva dire distruggere quella inchiesta, e così e stato. Perché mandare gli atti, per quale motivo? Nessun magistrato era stato iscritto e anche Perugia non ne ha iscritto nessuno”.
Alla prossima udienza, fissata per il 23 maggio, Davigo dovrà rispondere alle domande delle parti. Sarebbe molto interessante se qualcuno gli chiedesse di chiarire cosa intendesse dire quando, nella riunione della propria corrente nel febbraio 2020, si rivolse ad Ardita con durezza, contestandogli di nascondere qualcosa. All’epoca l’ex pm di Mani pulite era già al corrente dell’esistenza dell’indagine sulla loggia Ungheria? Se sì, in che modo ne venne a conoscenza? E perché, posto che secondo lui era inopponibile il segreto ai componenti del Consiglio, decise di rivelare la notizia dell’esistenza di un’indagine a Milano nei confronti di Ardita ad altri cinque membri del Csm in maniera informale, oltre che a un politico come Nicola Morra? Le domande sono tante e ciò dà il segno del pasticcio in cui Davigo si è infilato.
L'editoriale del direttore