Una nuova biografia
Antonin Scalia, la scalata alla Corte suprema raccontata da James Rosen
Il campione conservatore della Costituzione americana torna in libreria. Dopo tante caricature, un ritratto “simpatizzante” che restituisce lo stile unico dello scrittore-giurista
“Ehi, Fat Tony”. Tony Ciccione è un personaggio dei Simpson, il boss di Springfield, l’abito grigio, le esibite rotondità, il sigaro, l’accento italiano. Negli anni Settanta e Ottanta “Fat Tony” era soprattutto il soprannome di Anthony Genovese, uno dei boss della famiglia Genovese, la stessa di Lucky Luciano. Non deve aver fatto grande piacere a Nino Scalia, che tanto magro non era mai stato e all’anagrafe faceva Antonin, venir apostrofato così dal collega Frank Michelman, nel bel mezzo di un simposio di giuristi. Quando Scalia arriva alla Corte suprema, scelto da Reagan nel 1986, la comunità italoamericana è ancora pizza, mafia e mandolino. Lo staff del presidente ha messo da tempo gli occhi su Scalia, lo avevano portato alla corte d’appello del District of Columbia, ideale trampolino di lancio verso il pinnacolo del potere giudiziario. Ma l’amico più caro di Scalia e il suo lobbista più determinato, Larry Silberman, già Deputy Attorney General, viceministro della giustizia, con Nixon, suggerisce che per 30 milioni di italoamericani un giudice della Corte suprema sia un simbolo col quale identificarsi ancor più di quanto lo sarebbe un presidente italoamericano. La confutazione vivente dello stereotipo mafioso.
Nella nuova biografia di James Rosen (Scalia. Rise to Greatness, 1936 to 1986, Regency, 2023, pp. 500), che arriva fino alla nomina alla Corte, viene riportato più di un episodio in cui a un uomo brillante come Nino Scalia, primo della classe in praticamente qualsiasi cosa in cui si sia cimentato, venne fatto pesare l’essere italiano. Due incorniciano la sua carriera. Da ragazzo non lo prendono a Princeton, non è abbastanza wasp, l’esaminatore trova che si sentirebbe fuori posto. Andrà a Georgetown e poi a Harvard. Quando Reagan viene eletto, Scalia è a bordo campo e scalpita per entrare. Ha preso posizione per il nuovo presidente, ha spinto colleghi a schierarsi, aveva lavorato per Nixon e Ford e l’amministrazione assume un suo amico dopo l’altro. Vorrebbe fare il Solicitor General, cioè l’avvocato difensore del governo davanti ai tribunali più importanti, Corte suprema inclusa. Ma a William French Smith, il nuovo ministro della giustizia, un patrizio del diritto e un patrizio in ogni senso, la barca ormeggiata al largo di qualche isoletta del Maine da generazioni, Scalia non piace. Nella sua squadra, pensa, si sentirebbe fuori posto. Scalia poi arriverà alla Corte suprema.
Il libro di Rosen è la prima biografia “simpatizzante” di Scalia, dopo alcuni tentativi di farne la caricatura. Era un personaggio non solo controverso, ma che nella controversia ci stava come un’ape nel favo. All’università non si tirava indietro, quando c’era da discutere con gli studenti. Scalia insegna in atenei relativamente conservatori, Virginia, Chicago e Stanford, dove passa un anno come Visiting Professor. Ma si sentono gli echi del Sessantotto e Scalia non è solo un cattolico: è un cattolico conservatore, tradizionalista, diffidente nei confronti del Concilio Vaticano II e preoccupato per lo sfaldarsi della famiglia tradizionale. Eppure anche gli studenti più ideologicamente distanti ricordano la passione con la quale dibatteva con loro, la dignità che riconosceva a qualsiasi argomento, l’ironia che era il suo registro preferito, con qualche concessione anche alla risata sguaiata. Alla Corte suprema, inaugurerà la prassi di avere sempre un law clerk, un assistente, di idee socialdemocratiche: uno sparring partner per mettere a punto le sue tesi. Scalia era nato per discutere e proprio per questo per tutta la vita riconobbe un peso straordinario alle parole, ingegnandosi a cesellarle anche in un articolo per qualche oscura pubblicazione giuridica e badando a che baldanzose non solo nei contenuti ma anche nella forma fossero le sue opinion, i giudizi sui casi che gli era capitato di affrontare. I suoi genitori erano Salvatore Eugene Scalia e Catherine Louise Panaro. Salvatore nasce a Sommatino, provincia di Caltanissetta: arrivato negli Usa da adolescente, non sa una parola d’inglese, studia alla Rutgers e alla Columbia, diventa professore al Brooklyn College. La sua ascesa è per certi versi più incredibile di quella del figlio. “Suo padre non era proprio analfabeta, ma era un colletto blu. E mio padre, con la sola forza del suo cervello e del suo sforzo, prese un dottorato e divenne un professore di lingue romanze”. Salvatore (poi “Sam”) era “molto più intellettuale di quanto io non sia mai stato”.
Se si contano i fratelli e le sorelle di Sam e di Catherine, si arriva a nove. Fra tutti, Sam e Catherine sono gli unici a riprodursi. Nino cresce sommerso dall’attenzione dei parenti, è il figlio unico di tutto il clan. In compenso, il padre lo tiene sempre sulla corda. Se prende una A, Sam gli chiede come mai non è una A+. Sam non è mai stato visto a più di mezzo metro di distanza da un libro ma col figlio insiste soprattutto su quanto è più difficile allenare: il carattere. È l’unica cosa che, “a differenza dei muscoli e del cervello”, non si può affittare. Anche per questo la vita di Scalia è una vita di grandi amicizie, inclusa quella con Ruth Bader Ginsburg, antagonista sui banchi della Corte ma anche compagna di serate all’opera. Chi è bravo non tanto a farsi ma a tenersi degli amici è perché dedica loro tempo, non è avaro con le parole e con i gesti, considera l’amicizia una cosa seria e si comporta di conseguenza. L’altro insegnamento che Sam Scalia trasmette al figlio è che lavorare sulle parole non è un gioco, che sistemarle al posto giusto è una fatica continua. Scalia diventa, dopo Robert Bork, il maggior esponente nel cosiddetto “originalismo”: una dottrina che, come ricorda Giuseppe Portonera nel suo Antonin Scalia (IBL Libri, 2022, pp. 212), la prima monografia su Scalia pubblicata in una lingua che non sia l’inglese, recupera la tradizione del judicial restraint dei giuristi conservatori di fine Ottocento. Per Scalia, “un giudice deve ricercare il significato originario del testo e, una volta individuato, a quello deve ritenersi vincolato, senza possibilità di invocare considerazioni politiche, sociali, economiche per fondare una sostanziale riscrittura della legge in guisa di sua interpretazione”. A prescindere dalla volontà popolare, comunque intercettata. Una norma può essere incostituzionale anche se corrisponde a un sentimento vivissimo nella società contemporanea. Per questo Bork prende la scimitarra contro i tentativi della Corte suprema, chief justice Earl Warren, di “moralizzare la giustizia”, di fare passare per via giurisprudenziale nuovi orientamenti forse coerenti con lo stato dell’opinione pubblica ma non con il testo delle norme. Per Bork e Scalia, se è cambiato l’atteggiamento delle persone verso, per esempio, la pena di morte o l’aborto, il Congresso ha tutto il diritto di mettere mano a una legge, ma i giudici non debbono cercare nella Costituzione qualcosa che non c’è. Questa lettura “testuale” della Costituzione ha conseguenze molto rilevanti, negli Stati Uniti, soprattutto rispetto all’equilibrio fra governo federale e singoli Stati: i secondi hanno delegato al primo alcuni poteri e non altri.
Se Scalia ha detto di dover “molto di ciò che sono, intellettualmente”, all’università di Chicago, Rosen ricorda che quelli passati sul lago Michigan non furono i suoi anni migliori. Scalia sceglie quell’ateneo non solo per l’orientamento politico (all’epoca, decisamente più conservatore di tutti gli altri) ma soprattutto perché ai docenti vengono abbuonate le rette universitarie dei figli che, avendone nove, sono un bel problema. L’ambiente intellettuale è frizzante ma su tutte brilla la stella di Richard Posner. Se Scalia si sente un “lettore” della legge, Posner è un teorico fatto e finito. In quegli anni, a Chicago sta prendendo forma la law and economics, il tentativo cioè di applicare la teoria microeconomica, quella per cui Chicago è famosa, all’analisi del diritto. Non è che Scalia sia contrario, semplicemente non gli interessa. La differenza forse più rilevante fra la destra negli Stati Uniti e nel resto del mondo è che dagli anni Ottanta in qua i conservatori sono riusciti a riconquistare i tribunali. Prima di diventare un giudice egli stesso, Scalia aveva partecipato con entusiasmo alla nascita della Federalist Society, l’associazione dei giuristi non di sinistra. Grazie a lui e a Robert Bork l’originalismo ne è diventato uno dei cavalli di battaglia, ancor più dell’analisi economica del diritto, che invece più facilmente è filtrata nelle maglie del mainstream. Li agevolò il fatto che Bork, autore di un brillantissimo libro sul paradosso dell’antitrust, poteva agevolmente dialogare coi due mondi.
Non che a Scalia mancasse esperienza nel campo della regolazione economica. Il suo primo incarico fu come legale all’Office of Telecommunications Policy, nel 1971, dove fu anzi uno dei principali architetti delle regole pro-competitive che condussero allo scardinamento del monopolio della Bell System. Nel 1971, fece passare l’idea dei “cieli aperti”: “qualsiasi società che possa dimostrare di possedere le necessarie capacità tecniche e riserve di capitale adeguate può lanciare nello spazio un satellite artificiale per comunicazioni sul territorio del paese”. Scalia sarà poi fra gli editor di Regulation: la testata dice tutto. Da allora in avanti la preoccupazione principale di Nino è il diritto amministrativo e come ristrutturare un equilibrio fra i poteri che gli appare compromesso: in ritirata la Presidenza, dopo il Watergate. Preso dalla frenesia di legiferare il Congresso. Disponibili a esercitare qualsiasi supplenza i giudici. Il problema di fondo, commenta negli anni Settanta, è che il potere legislativo si è “professionalizzato”, deputati e senatori hanno la riconferma per pensiero fisso, ciò li rende più sensibili ai gruppi d’interesse di quanto non lo siano ai sentimenti disorganizzati del corpo elettorale. La carriera di Scalia segue una parabola curiosa. A parte i primi anni dopo l’Università, quando fa l’avvocato in uno studio di Cleveland, Nino è impegnato a cercarsi regolarmente un lavoro dove lo stipendio sia più basso del precedente. Gli sprazzi di successo economico sono rari, e corrispondono ai momenti di ritiro nel guscio accademico, dove l’influente professore può andare in televisione, fare l’intellettuale pubblico, accettare consulenze. Per fortuna c’è Maureen McCarthy, sua moglie, conosciuta durante gli anni in Massachusetts. Maureen mette al mondo nove figli (Nino ha assistito a un parto soltanto, l’ultimo), va alle partite di baseball e ai saggi di danza, fa tornare rocambolescamente i conti, è la prima lettrice, la prima critica, la prima sostenitrice del marito. Mai come in questo caso vale il detto reso indicibile dal politicamente corretto: dietro a un grande uomo, c’è una grande donna.
Rosen racconta con passione le schermaglie di Scalia con i politici, le sue audizioni al Congresso da matador che sventola il capote toreando con Ted Kennedy o con Joe Biden, il disastroso debutto come avvocato innanzi alla Corte: un amore iniziato male. Anne Brunsdale e Walter Olson, che lavorarono con lui a Regulation, raccontano quanto egli “si sforzasse di far sì che le parole fluissero scorrevolmente e di trovare una frase che riassumesse il suo pensiero”. Lo studioso “originalista” è un po’ un linguista prestato al diritto e fra le sue marmoree convinzioni ce n’è una granitica: un buon giurista deve per forza essere anche uno scrittore. Scalia frequentava molto il registro del sarcasmo, per smascherare paradossi e ipocrisie. In un articolo di fine anni Settanta sulla affirmative action, ovvero sulle misure per ristabilire il dare e l’avere con le minoranze etniche, Nino suggerisce che se dobbiamo giocare alla giustizia riparativa tanto vale pensare a un sistema di handicap, come nello sport. Attribuito alla nascita, sulla base dei trascorsi della famiglia, servirà a pareggiare la partita della vita. Se c’è un “credito razziale” da esigere, dovrà esserci anche un debitore e come trattare alla stessa stregua i bianchi inglesi, che della schiavitù hanno profittato, e irlandesi o italiani, a lungo discriminati essi stessi?
Per Scalia il seggio alla Corte non significherà mettere la sordina a questo stile brillante, insolito, allora più di oggi, per gli scrittori di diritto. Anzi, ci investirà ancora più tempo e attenzione, convinto che sia il modo nel quale può esercitare un’influenza sulla nuova generazione, insegnare a un pubblico più vasto. Lo dimostra l’effervescenza lessicale delle sue opinion, costruite, spiega Portonera, “con una capacità rara, se non unica, di rivolgersi non solo ai giuristi, ma anche al cittadino comune”. Per Nino, il tecnico del diritto non dovrebbe rendersi incomprensibile: l’impenetrabilità di norme e sentenze non ha altro scopo che consolidare il potere discrezionale di chi le scrive. La legge dovrebbe essere comprensibile da qualsiasi persona mediamente colta e il fatto che una sentenza non sia un romanzo non esime il suo autore dal cercare le parole giuste, dal non esagerare con gli aggettivi, dal dovere di essere preciso. Lo stile è il giudice.