l'opinione
Caro ministro Nordio, sulla giustizia ci vuole più coraggio
Il diritto penale degli slogan è un’emergenza dell’Italia. Il governo qualcosa a riguardo può fare
Illustri giuristi – su tutti il prof. Sgubbi e il prof. Fiandaca – hanno più volte ricordato quanto sia diffusa, tanto nell’opinione pubblica quanto nella politica, la convinzione che il diritto penale sia lo strumento per rimediare a ogni ingiustizia. Facendo apparire queste parole quanto mai attuali, non c’è stata settimana dell’agenda politica degli ultimi mesi – se non degli ultimi anni, essendo l’ossessione repressiva un problema comune a forze politiche di diverso colore (si pensi al ddl Zan) – in cui il diritto penale non sia stato tirato in ballo.
E’ il diritto penale degli slogan – “formula sintetica, espressiva e facile da ricordare, usata a fini pubblicitari o di propaganda” – dove, in ossequio alle regole del marketing, non conta ciò che si riesce a realizzare, ma il messaggio che si veicola. La comunicazione deve essere breve, efficace e deve parlare la stessa lingua di chi ascolta. Se è vero che il buongiorno si vede dal mattino, l’attuale legislatura non ha tradito le attese e, nel giorno di insediamento delle Camere, veniva presentata una proposta in tema di atti osceni per contrastare – attraverso lo strumento del diritto penale (e come altrimenti?) – il “degrado morale che affligge la nostra collettività” proponendo di punire, tra gli altri, i clienti delle prostitute. Era solo l’antipasto di un legislatore-moralizzatore.
Era poi il turno del rato di “rave party”, norma che – nella sua versione iniziale – si iscrive a pieno titolo nella politica criminale degli slogan, di cui possedeva tutti gli ingredienti. Era stata pensata in risposta ad uno specifico evento (il rave che si era tenuto qualche giorno prima a Modena), era accompagnata da proclami quali “pugno duro contro droga, insicurezza e illegalità: è finita la pacchia”, era presentata come norma necessaria (mentre era possibile applicare altri reati), era generica e il trattamento sanzionatorio era sproporzionato. All’indomani della tragedia di Cutro, il bersaglio da colpire attraverso lo strumento del penale – come se questa fosse l’unica freccia nell’arco della politica – diventavano trafficanti e scafisti e veniva introdotto un nuovo reato con pene fino a 30 anni cui si accompagnava la promessa di cercare gli scafisti “lungo tutto il globo terracqueo”. Qui le principali critiche riguardano il fatto che lo scafista, lungi dall’aver a che fare con i veri organizzatori dei traffici, è quasi sempre uno degli stessi migranti.
Sempre in tema di “reati universali” – termine che ben si iscrive nella politica criminale degli slogan – si proponeva poi di punire la maternità surrogata anche qualora commessa all’estero da cittadini italiani. Tuttavia, diversamente da quanto accade per altri reati puniti in Italia anche se commessi all’estero, in questo caso le condotte sono lecite, a determinate condizioni, in altri ordinamenti. Anche in questo caso, dunque, un utilizzo per lo più simbolico del diritto penale. L’attenzione si spostava poi sull’emergenza delle “borseggiatrici rom” e si proponeva il carcere per le madri in caso di recidiva, facendo venir meno il differimento della pena per donne incinte con figli piccoli. L’obiettivo – a proposito di slogan – era far sì che la gravidanza non sia più una scusa per evitare il carcere. Nel frattempo, solo negli ultimi mesi, proposte per sanzionare penalmente chi imbratta teche nei musei, chi vandalizza beni culturali, chi occupa case abusivamente, chi truffa gli anziani, chi istiga all’anoressia o chi spaccia (anche nei casi di lieve entità). Nella precedente legislatura, solo per fare qualche esempio, proposte sulla tutela degli arbitri o – tenetevi forte – sull’impiego di tecnologie cibernetiche per procurare lo stato di incapacità o per commettere il delitto di tortura. Sullo sfondo – nel dubbio che introdurre nuovi reati non fosse sufficiente – una proposta di modifica dell’art. 27 Cost. per consentire al giudice di applicare “pene esemplari” che fungano da ammonimento per i consociati.
In controtendenza, per fortuna, la recente proposta di intervenire in campo medico per contrastare la cd. medicina difensiva. È sempre più stretto il legame tra politica e diritto penale e la comunicazione passa anche attraverso il modo in cui si usa, o si mostra agli elettori di saper usare, lo strumento penale. E’ bene, però, che il diritto penale – che dovrebbe essere uno strumento da maneggiare con cura – si smarchi sempre di più dalla comunicazione, smettendo di essere utilizzato, a fini di propaganda, per assecondare la pretesa punitiva del momento. Perché, in fin dei conti, a chi serve il diritto penale degli slogan?
Guido Stampanoni Bassi
avvocato e direttore della rivista Giurisprudenza Penale