Giudizi e pregiudizi
Quali sono le responsabilità di un capo? Il dossier Assonime sul caso Viareggio
L’associazione delle società per azioni torna sui fatti di 14 anni fa e reputa inammissibile la condanna dell’ad Mauro Moretti. Ecco perché le sentenze di Firenze e Cassazione fanno a pugni con la moderna disciplina societaria
Tutto comincia nel 2009 e ancor oggi, dopo ben 14 anni, non si sono dissolte le nebbie di un potere giudiziario che non accontenta nessuno, né le vittime né i veri o presunti responsabili e nemmeno il diritto, sollevando seri dubbi su una questione fondamentale: chi è responsabile, in particolare quando è coinvolta una grande organizzazione. Un dossier costruito in modo minuzioso da Margherita Bianchini, vicedirettore dell’Assonime, sotto la direzione di Stefano Firpo, mostra che tra sindrome del capro espiatorio e teoremi giustizialisti, la ricerca della verità sta facendo seri passi indietro. Ecco i fatti nudi e crudi. Sono le 23 e 49 del 29 giugno, un treno merci delle Ferrovie dello stato che trasporta gas da petrolio liquefatto deraglia nei pressi della stazione di Viareggio.
Il Gpl uscito da uno dei carri cisterna provoca un tremendo incendio, un rogo che uccide trentadue persone e ne ferisce in modo grave altre 25. L’incidente è causato dalla rottura di un assile di un carro che non aveva avuto una corretta manutenzione da parte dell’officina tedesca Jungenthal, perché il vagone era immatricolato in Germania dalla Deutsche Bahn. Il tribunale di Lucca il 31 gennaio 2017 condanna 33 imputati per incendio, disastro ferroviario, omicidio e lesioni colpose: sono gli amministratori e dirigenti delle società coinvolte, da quelle italiane a quelle straniere. Viene esclusa invece la responsabilità di Mauro Moretti, amministratore delegato della società capogruppo, per il quale la procura generale aveva chiesto quindici anni, circa il doppio di quelli comminati ai condannati. Secondo i giudici chi guida la holding esercita poteri di indirizzo e coordinamento diversi da chi gestisce le controllate.
Nel 2019 la Corte d’appello di Firenze, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ribalta la sentenza di primo grado e condanna anche Moretti perché considerato amministratore di fatto a tutti i livelli, dal vertice alla base, quindi avrebbe dovuto adottare ogni cautela necessaria a impedire l’incidente. Le Fs in quanto tali non sono responsabili, il “big boss” sì, lui non poteva non sapere. Non è finita qui. Due anni dopo la Corte di cassazione dichiara prescritto per tutti gli imputati il reato di omicidio colposo, conferma per alcuni il disastro colposo, per altri annulla la sentenza. Moretti rinuncia alla prescrizione e fa ricorso. A questo punto la Corte esamina in punto di diritto la vexata quaestio: di che cosa e fino a che punto l’ad della società madre è responsabile di quel che accade giù giù per li rami?
I magistrati del Palazzaccio, come viene chiamato a Roma l’imponente immobile umbertino dove ha sede la Corte suprema, non se la sentono di seguire la linea dei giudici fiorentini, ma trovano una soluzione intermedia, un cavillo se vogliamo: confermano la condanna di Moretti per violazione dell’obbligo di “tracciabilità”, ma dalla “condotta omissiva” viene imputata all’ad una “condotta commissiva”, quindi attiva, per aver “imposto a livello di gruppo l’inosservanza della regola cautelare per una precisa scelta aziendale”, cioè risparmiare. Noto come tagliatore di costi e di teste, Moretti avrebbe diramato una direttiva implicita o esplicita che ha indotto a trascurare la manutenzione, quindi è responsabile di “esercizio colposo dei poteri di direzione e coordinamento”. C’è anche una questionuccia parallela, cioè la violazione del limite di velocità del treno, ma è ancora da accertare.
Fin qui la vicenda giudiziaria trascinata alle calende greche con aperta contraddizione tra i vari livelli di giudizio. Ma perché se ne occupa l’Assonime, l’associazione delle società per azioni? Perché il caso Viareggio va al cuore di una questione essenziale per chi gestisce una impresa con ricadute anche sulla vita quotidiana. Nel corso degli ultimi vent’anni il diritto societario e il modo di condurre e organizzare l’attività economica hanno fatto grandi passi avanti. Il punto di riferimento è la disciplina 231 del 2001, nata addirittura da uno dei più mediatici scandali, quello del 1976 che riguardava la Lockheed, una vicenda di corruzione per la fornitura di aerei C-130 all’Aeronautica militare (venne ingiustamente coinvolto il presidente della Repubblica Giovanni Leone che si dimise). In sostanza, un’impresa di medio-grandi dimensioni oggi ha una struttura complessa, non c’è il padrone delle ferriere, ma esistono filtri e regole tra proprietà e gestione, così come tra i diversi livelli operativi. Ancor più quando si tratta di un vero e proprio gruppo.
Alla svolta del nuovo secolo, il concetto di responsabilità sociale stava diventando mainstream e muoveva i primi passi la Esg (il rispetto dell’ambiente, dei valori aziendali e di una governance che rispetta le diverse componenti della società), oggi nuovo paradigma imprenditoriale, per quanto discusso e non sempre rispettato. Fatto sta che si è diffuso un modello organizzativo orizzontale in grado di individuare con maggior precisione i vari livelli di responsabilità specifica. Ebbene, spiega l’Assonime, le sentenze di Firenze e della Cassazione fanno compiere un enorme balzo indietro. “Ne deriva – scrive il case study – un’astrazione di responsabilità e una sua risalita verso l’alto che conduce ad affermare sempre la responsabilità dei vertici societari, inclusa quella dell’amministratore delegato della capogruppo, per qualunque fatto di reato si verifichi all’interno, mancando di cogliere come realmente si atteggiano i poteri e i compiti strategici degli amministratori nelle organizzazioni complesse”.
E pensare che la Cassazione con due sentenze precedenti ha recepito il senso e il percorso delle riforme societarie in tema di controlli, responsabilità e gestione del rischio. Si tratta della sentenza ThyssenKrupp del 2017 (l’incendio nella acciaieria torinese che nel 2007 aveva ucciso sette operai) e quella Impregilo (notizie false al mercato) del 2022 che fa esplicito riferimento al “sistema 231”. Dopo quasi vent’anni e sei gradi di giudizio, viene sancito infatti il principio per cui “non è ipotizzabile un controllo preventivo su qualunque atto da parte degli apicali dell’organizzazione”. Dal non poteva non sapere passiamo al non poteva sapere? Nient’affatto, si tratta di conoscere e riconoscere le novità avvenute nelle moderne imprese, e soprattutto di applicare il principio chiave del diritto: accertare i fatti, acquisire le prove, identificare le responsabilità specifiche prima di stabilire la colpa e comminare la pena. Insomma, il giudizio non il pregiudizio.