il processo
“Ha violato la legge nel suo salotto”. Per Davigo chiesta la condanna
Nei confronti dell’ex pm di Mani pulite l’accusa ha chiesto una condanna a un anno e quattro mesi per rivelazione di segreto d'ufficio sui verbali di Amara: "Ha scelto una via privata per un problema pubblico”
"Piercamillo Davigo si erge a paladino della giustizia per tutelare la legalità, ma l’unica legalità violata è stata commessa nel salotto di casa sua”, quando l’ex consigliere del Csm convinse il pm di Milano Paolo Storari a consegnargli i verbali secretati resi dall’avvocato Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, “atti che poi, dopo un po’ di tempo finirono sui giornali pregiudicando una delicatissima indagine”. Non ci è andato giù per il sottile il pm di Brescia Donato Greco nella requisitoria finale del processo a carico di Davigo, imputato per rivelazione di segreto d’ufficio. Nei confronti dell’ex pm di Mani pulite l’accusa ha chiesto una condanna a un anno e quattro mesi, con pena sospesa (la sentenza è stata rinviata all’udienza del prossimo 20 giugno).
La vicenda è ormai nota: nell’aprile 2020 Davigo convinse Storari a farsi consegnare i verbali secretati sulla presunta loggia Ungheria, sostenendo che il segreto istruttorio non è opponibile ai consiglieri del Csm. Storari intendeva tutelarsi dall’inerzia a suo dire praticata dai vertici della procura attorno all’inchiesta. Anziché adottare le dovute cautele nei confronti di dichiarazioni rese da un noto mistificatore (poi rivelatesi puntualmente infondate e calunniose), Davigo decise di farsi consegnare i verbali secretati e di rivelarne il contenuto in maniera informale al pg della Cassazione Giovanni Salvi, al vicepresidente del Csm David Ermini, a cinque componenti del Csm (Cascini, Gigliotti, Cavanna, Marra, Pepe), al politico Nicola Morra (presidente della Commissione antimafia), alle sue due segretarie e – si è scoperto nell’udienza di martedì – anche al primo presidente di Cassazione, Pietro Curzio. Tutto ciò per isolare il suo ex amico e compagno di corrente Sebastiano Ardita, che da Amara veniva indicato come appartenente alla presunta loggia. “L’unico fine di Davigo non era la giustizia o salvaguardare le indagini, ma abbattere Sebastiano Ardita”, ha detto l’avvocato Fabio Repici, legale di parte civile di Ardita, intervenendo al processo.
“Davigo – ha evidenziato il pm Greco – dice a Storari il falso dicendo che su quegli atti il segreto non è opponibile al Csm, ci deve essere un interesse del Consiglio, invece Storari lamenta un’inerzia, di cui non c’è traccia se non nelle sue parole, su cui il Csm non ha voce in capitolo”. Non solo: le notizie al Csm “devono passare da un canale ufficiale, non nel corso di un colloquio con un singolo consigliere del Csm nel salotto di casa sua e con la consegna di una chiavetta Usb”. Il pm ha anche sottolineato come l’intervento “ponte” operato da Davigo nei confronti dei colleghi abbia avuto come effetto quello di “allargare la platea dei destinatari di quella rivelazione”. Per sua stessa ammissione, Davigo ha agito in questo modo sulla base di una “giustificazione” piuttosto bizzarra: “Il Csm non sa tenere i segreti. Se anche fosse che il Csm non sa tenere i segreti non è che si può violare una norma ed è gravissimo che un’affermazione arrivi proprio da Davigo”, ha notato Greco.
Insomma, “Davigo ha scelto una via privata per un problema pubblico”, ha ribadito l’altro componente dell’accusa, il pm Francesco Milanesi, che ha ricordato come la scelta più naturale per le problematiche segnalate da Storari – cioè quella di rivolgersi alla procura generale di Milano – non venne operata da Davigo “per la sfiducia personale nei confronti del magistrato che svolgeva tali funzioni”. Un’altra giustificazione bizzarra: “Poiché riteniamo una persona inadatta, non seguiamo la legge? Sarebbe come se un evasore fiscale dicesse ‘non mi fido di chi gestisce i soldi pubblici e preferisco gestirli io’”, ha affermato Milanesi, ricordando che “il Csm è attrezzato per gestire notizie riservate”.
“Si è fatto un semi golpe ai danni del Csm”, ha detto l’avvocato Repici, accusando Davigo di aver “applicato la logica del marchese del Grillo”, e chiedendo alla corte una sentenza di condanna di fronte “alla confessione del reo”. Il 20 giugno la sentenza.