l'editoriale del direttore
Il lutto nazionale manettaro sulla riforma della giustizia
La lagna sulla riforma Nordio mostra il vero sogno del partito della gogna: continuare a spacciare lo sputtanamento per diritto di cronaca. Ma perché combattere il business delle intercettazioni-spazzatura? Sentite Mattarella
Lutto nazionale. I giornali che negli ultimi trent’anni si sono abbeverati in modo copioso alla sorgente tossica della gogna mediatica ieri hanno espresso tutta la loro preoccupazione rispetto a una circostanza che potrebbe divenire reale nel caso in cui le linee guida della riforma della giustizia presentate giovedì in Consiglio dei ministri dal governo dovessero trasformarsi in realtà. La preoccupazione, molto profonda, molto sentita, molto intensa, che si somma naturalmente alla preoccupazione immensa di non poter più far leva sull’anti berlusconismo, per improvvisa dipartita del diretto interessato, è legata alla possibilità che ai mezzi di informazione sia vietato pubblicare atti di indagine prima della richiesta di rinvio a giudizio e sia reso impraticabile l’accesso alle conversazioni tra persone non indagate captate dall’autorità giudiziaria. E’ “una vendetta”, ha scritto Repubblica. E’ “un bavaglio”, ha aggiunto la Stampa. E’ “un regalo a Berlusconi”, ha sostenuto il Fatto. E’ “una rivalsa”, ha argomentato il Corriere. Le valutazioni molto critiche di alcuni giornali, rispetto alle linee guida presentate dal ministro Nordio, nascono da un problema reale che coincide con la possibilità concreta che una regolamentazione più severa delle intercettazioni si trasformi in un ostacolo insormontabile per tutti coloro che hanno costruito un business editoriale anche di successo attorno a un’idea precisa: la trasformazione del giornalismo in una buca delle lettere delle veline delle procure. Sulla base di questo principio, molti mezzi di informazione, giocando di sponda con le procure amiche, hanno contribuito non solo a dare una forte legittimità al processo mediatico ma anche a far diventare la cultura del sospetto, o forse sarebbe più corretto chiamarla cultura dello sfregio, in un’attività sacra, divina, inviolabile. Un’attività all’interno della quale ciò che conta non sono le prove, ma sono gli indizi, sono gli schizzi di fango, sono le tesi senza contraddittorio di una Repubblica fondata sullo strapotere dei pm.
E un’attività all’interno della quale, con un incredibile gioco di prestigio, la libertà di sputtanamento è stata trasformata in diritto di cronaca. E conseguentemente, ogni tentativo di combattere la dittatura dello sputtanamento è stato considerato, dagli azionisti della Repubblica della gogna, non come un tentativo di tutelare un articolo costituzionale, il numero ventisette, in base al quale “ogni imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, ma come un tentativo oltraggioso, vendicativo, vergognoso di mettere “un bavaglio al giornalismo”, di mettere “i bastoni in mezzo alle ruote della magistratura”, di “dare un colpo letale allo stato di diritto”. Agli osceni collaborazionisti del partito della gogna – un partito che ha scelto deliberatamente di trasformare il garantismo in innocentismo e che ha scelto di diventare la grancassa delle procure d’assalto, sulla base di uno scambio che meriterebbe di essere denunciato con forza, io giornalista faccio mie le tesi del pm e in cambio il pm non smette di allungarmi, quando servono, gli atti giudiziari che possono aiutarmi ad alimentare il processo mediatico – per rinfrescare le proprie conoscenze sul tema del rispetto dello stato di diritto consigliamo di rileggere alcuni articoli della Costituzione (suggeriamo il 111 e il 112). Ma consigliamo soprattutto di ascoltare con rispetto e attenzione non i discorsi pronunciati in questi anni sulla giustizia da Silvio Berlusconi, ma quelli pronunciati negli ultimi mesi da Sergio Mattarella. Che da garante della Costituzione, ogni volta che ne ha avuto l’occasione, ha invitato i magistrati, e anche l’opinione pubblica, a combattere con forza tutto ciò che porta acqua al mulino della gogna. Lo ha fatto due giorni fa, durante l’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio, ai quali ha ricordato che il compito di un magistrato è “coltivare il dubbio anche sulle proprie iniziali convinzioni”, è interpretare le norme mettendo da parte ogni “funzione direttamente creativa”, è promuovere “la riservatezza dei comportamenti individuali”, è non cadere in tentazione, apparendo “di parte”, in una stagione “nella quale la preziosa moltiplicazione dei canali informativi presenta anche il rischio di trasmettere l’apparenza di realtà virtuali”.
Lo aveva già detto nel 2019, quando il presidente disse che “la magistratura non deve essere condizionata da spinte emotive evocate da un presunto, indistinto ‘sentimento popolare’, che condurrebbero la giustizia su sentieri ondeggianti e lontani dalle regole del diritto”. Lo ha ripetuto il 3 febbraio 2022, nel suo primo discorso del secondo mandato, quando il capo dello stato ha ricordato quanto sia alto oggi il “timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”. E il discorso è fin troppo evidente: i veri nemici della Costituzione non sono coloro che cercano di lavorare a un riequilibrio tra i poteri, provando a combattere gli orrori del circo mediatico-giudiziario, ma sono coloro che, mentre fingono di difendere la Costituzione, non fanno altro che calpestarla. Alimentando il processo mediatico. Rafforzando la cultura del sospetto. Mettendo sulla graticola gli indagati. Infilando nel tritacarne anche i cittadini non indagati. Trasformando le tesi dell’accusa in verità senza contraddittorio. E spacciando per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento. Lutto nazionale per un po’ di garantismo in più? Anche no, grazie.