cosa succede al csm
La rilevanza pubblica più che individuale del processo Davigo
La condanna dell'ex pm di Mani pulite ha attirato l'attenzione per la nemesi del giustizialista. Ma ciò che è in gioco non è la sorte personale di Davigo, che ormai è un pensionato semplice, bensì la ricaduta sul funzionamento del Csm
La condanna a un anno e tre mesi inflitta a Piercamillo Davigo per rivelazione del segreto d’ufficio ha, comprensibilmente, riempito le cronache dei giornali e dato spazio ai giudizi anche sarcastici dei commentatori per le caratteristiche del personaggio. La sorte ci ha messo la sua ironia. Davigo era stato rinviato a giudizio, lo scorso anno, nel giorno del trentesimo anniversario dell’arresto di Mario Chiesa e quindi dell’inizio dell’epopea di Mani pulite. E per giunta è stato condannato l’altro ieri, mentre il Senato commemorava la scomparsa e celebrava la figura di Silvio Berlusconi, la sua antitesi giudiziaria per tre decenni.
La caduta nella polvere del moralizzatore fa rileggere con altro sapore tutta quella serie di aforismi e aneddoti giustizialisti che Davigo ha propalato per anni sui giornali e in televisione: dai colpevoli che la fanno franca agli innocenti non ancora scoperti, per arrivare alle ricadute sociali sugli imputati già a partire dal rinvio a giudizio con la trita e ritrita davighiana parabola del pedofilo: “Se il mio vicino di casa è rinviato a giudizio per pedofilia, io mia figlia di sei anni non gliel’affido quando vado a fare la spesa. Poi, se verrà scagionato, si vedrà”.
L’Unione delle camere penali, ribadendo, la presunzione di non colpevolezza ha ricordato i giudizi sprezzanti di Davigo, che ha annunciato ricorso contro la condanna, sull’uso pretestuoso e dilatorio dell’impugnazione delle sentenze da parte degli imputati: “Un augurio da noi penalisti italiani, sincero, non sarcastico e autenticamente rispettoso della persona: di incontrare giudici di appello ed eventualmente di Cassazione che abbiano una idea della ammissibilità dei ricorsi radicalmente diversa da quella notoriamente praticata dal dott. Davigo nei lunghi anni della sua esperienza di giudice di appello prima e di Cassazione poi”, recita il comunicato.
Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera ha letto nel dispositivo del tribunale di Brescia una sorta di nemesi per “la sua hybris in una sorta di tracotante sopravvalutazione delle proprie prerogative di consigliere Csm, infine punita dagli ‘dei’”. Sul Fatto quotidiano Marco Travaglio, da un punto di vista opposto, anziché le figure della mitologia greca ha fatto ricorso alla letteratura italiana per confrontare la celebrazione di Berlusconi e la contemporanea condanna di Davigo: “La realtà supera persino la fantasia di Collodi: nell’Italia di oggi, diversamente dal Paese di Acchiappacitrulli, non si condanna Pinocchio, ma il Grillo Parlante” (forse per un condannato per rivelazione del segreto si poteva usare una figura meno involontariamente comica del Grillo Parlante).
C’è poi lo scontro feroce tra magistrati. Ad esempio con Francesco Greco, suo collega nel pool di Mani pulite e poi rivale in questa brutta storia. Davigo era andato in tv a sentenziare che Greco, allora procuratore di Milano, aveva “violato la legge” per non aver proceduto nei confronti delle rivelazioni di Amara sulla fantomatica “loggia Ungheria”, e poi è finita che Greco è stato archiviato e Davigo condannato per aver spifferato il contenuto secretato dei verbali consegnatigli improvvidamente dal pm Paolo Storari. C’è infine lo scontro con un altro amico-nemico a cui, secondo la sentenza, dovrà pagare un risarcimento: Sebastiano Ardita, collega al Csm, compagno di corrente e coautore di libri e articoli, attorno a cui Davigo fa improvvisamente terra bruciata rivelando a membri del Csm e politici i verbali di Amara che, in maniera calunniosa, descrivono Ardita come un appartenente a una loggia inesistente.
Sono tutti aspetti che riguardano la personalità e le vicende personali di Davigo. Si tratta sicuramente di questioni interessanti, che però non sono la cosa più importante di questo processo. Perché ormai Davigo è un pensionato semplice, fuori dal Csm – nonostante abbia tentato di restarci oltre i limiti anagrafici – e senza più alcun incarico pubblico. Ciò che forse non è stato evidenziato abbastanza, è che la rilevanza pubblica del processo di Brescia non è tanto per la sorte dell’ex magistrato ma per le conseguenze sul funzionamento delle istituzioni.
Perché ciò che è accaduto è che, al di fuori di ogni norma e procedura, un pm (Storari) ha consegnato atti coperti da segreto a un consigliere del Csm (Davigo) che li ha usati a fini privatistici per regolare dei conti all’interno della propria corrente e del Csm, delegittimando un altro consigliere (Ardita) ignaro delle trame e del chiacchiericcio alle sue spalle, con la conseguenza di un oggettivo condizionamento degli equilibri e del funzionamento di un organo di rilievo costituzionale che amministra la giustizia. Peraltro questo verminaio durato oltre un anno è emerso solo perché un altro membro del Csm, Nino Di Matteo, dopo aver ricevuto il plico anonimo con i famosi verbali ha denunciato prima alla procura di Perugia e poi pubblicamente la “manovra sporca” che stava dietro le calunnie e l’emarginazione di Ardita.
Al di là dell’interesse per la parabola umana del personaggio Davigo, che si difenderà nei prossimi gradi di giudizio, ciò che realmente si decide in questo processo è se un membro del Csm può farsi dare da un qualsiasi pm atti coperti da segreto per farne l’uso che ritiene più opportuno a prescindere dalle regole. La sentenza di primo grado dice di no. E questo è positivo per un sano funzionamento delle istituzioni, perché dovrebbe evitare che il Csm si trasformi in una sorta di centrale di dossieraggio legalizzato.