Da Tangentopoli al Cav.
“Moralizzare” per procura. Storia dell'illusione giudiziaria italiana
Rileggere “Il potere dei giudici” di Alessandro Pizzorno per capire la centralità delle norme giuridiche nelle società moderne. Così il “controllo della virtù” da parte della magistratura ha cambiato la storia del paese
Nelle rievocazioni successive alla morte di Berlusconi hanno naturalmente avuto molto spazio le sue vicende giudiziarie, e dunque quell’espansione del potere della magistratura rispetto alla politica che ha caratterizzato l’ultimo trentennio italiano. È forse rimasto in ombra che il fenomeno della “giuridicizzazione della politica”, come è stato chiamato, è iniziato prima del 1994 e non ha caratterizzato soltanto l’Italia: è del 1995 un corposo volume intitolato The Global Expansion of Judicial Power (a cura di C. N. Tate e T. Vallinder, New York University Press), che nasceva da un convegno tenutosi in Italia nel 1992 (quasi un segno del destino, si direbbe col senno di poi) che si occupava di vari stati, europei e non. Soprattutto, però, non va dimenticato come il fenomeno di cui si sta dicendo corrispondesse, in Italia e nelle principali democrazie occidentali, a trasformazioni sociali e culturali profonde.
Tra esse va ricordata in primo luogo la “resa delle autorità sociali alla legge”, come la definì Alessandro Pizzorno in un libretto del 1998 (Il potere dei giudici, Laterza) che andava decisamente contro l’orientamento prevalente nell’opinione pubblica post Tangentopoli e forse per questo non venne più ristampato. Nei paesi occidentali, vi si spiegava, erano a lungo esistite delle autorità sociali – insegnanti, medici, genitori ecc. – capaci di emanare delle norme e di farle rispettare. Il normale funzionamento della vita sociale era regolato in larga misura da questo meccanismo e il ricorso alla magistratura avveniva soltanto in casi particolari e non per le piccole controversie. Ebbene, spiegava Pizzorno, il quadro era poi radicalmente cambiato (e questa, si può aggiungere, era probabilmente una conseguenza inevitabile della democratizzazione delle nostre società, sempre meno disponibili a riconoscere le autorità tradizionali); per conseguenza si era verificata una sempre maggiore centralità delle norme giuridiche rispetto ad altri tipi di norme e regole: “Coloro che usavano essere soggetti alle varie autorità sociali e osservarne le norme […] sono ora in grado di citare in giudizio quella particolare autorità sociale, o decisione di essa, che lede i loro interessi, e lo fanno di più in più frequentemente”. Certi ricorsi al Tar di cui leggiamo ormai regolarmente, portati avanti da qualche genitore per difendere il figlio da una bocciatura o perfino dalle conseguenze di un’aggressione all’insegnante, rientrano perfettamente in questo fenomeno.
In sostanza, l’estensione del potere giudiziario ad ambiti sempre maggiori della vita collettiva nasceva anche da una domanda di intervento che saliva dalla società. A essa si aggiungeva, soprattutto in Italia, una ulteriore richiesta di intervento di fronte a fenomeni di particolare allarme sociale, in primo luogo il terrorismo. A partire dagli anni Settanta la magistratura fu incaricata – dal mondo politico e dall’opinione pubblica – non soltanto di pronunciarsi sul singolo reato, accertando le responsabilità formulate a carico di ogni singolo imputato, bensì di affrontare e risolvere alla radice il problema del terrorismo (nasceva quello che Luciano Violante ha definito il “giudice di scopo”). Qualcosa di analogo si verificò nel caso di un altro fenomeno che destava diffuse preoccupazioni nel paese: la mafia. Come si capisce, il numero enorme di magistrati assassinati dalle organizzazioni terroristiche o dalla criminalità organizzata doveva accrescere il prestigio e il credito della magistratura, e il contemporaneo affidarsi a essa da parte della società con la richiesta di risolvere problemi che la politica sembrava incapace di affrontare sul serio.
Ma anche la lotta alla corruzione vide crescere nel paese la richiesta di un intervento risolutivo della magistratura. Di fronte ad alcuni scandali degli anni Ottanta, e poi ancor più negli anni Novanta, l’opinione pubblica – se non tutta, una parte largamente maggioritaria – chiedeva al singolo magistrato, anzitutto della pubblica accusa, non tanto di pronunciarsi in relazione ai responsabili del singolo reato, ma di accertare se un reato fosse stato o meno commesso. Al potere giudiziario veniva assegnato – è ancora Pizzorno a usare l’espressione – il “controllo della virtù”, un controllo da esercitare in primo luogo sui politici ma anche sulla società nel suo complesso, con l’attiva collaborazione di gran parte della stampa. Certi comportamenti – l’arresto di un indagato per convincerlo a confessare, le intercettazioni “a strascico” finalizzate a scoprire nuovi reati, la pubblicazione sulla stampa di conversazioni penalmente non rilevanti ma utili a svelare comportamenti e costumi dei potenti – saranno pure da censurare (lo sono, eccome) ma risultavano e risultano perfettamente coerenti con la richiesta di moralizzazione che l’opinione pubblica ha incautamente rivolto alla magistratura. Aver pensato che un paese si potesse “moralizzare” per procura (nel doppio significato di affidare tale opera ad altri e di servirsi delle procure) era evidentemente illusorio. Ma è anche da questo tipo di richieste che origina l’“espansione del potere giudiziario” che ha caratterizzato gli ultimi decenni di storia italiana, prima ancora che si verificasse quell’entrata in politica di Berlusconi che – come è universalmente noto – doveva molto accentuare il fenomeno.