La storia di Forlani ci ricorda cosa sono le vere persecuzioni giudiziarie
Oltre che sulla sua storia di leader sarebbe bene riflettere, ora che si sentono nuovamente i tam tam del giustizialismo, sul modo in cui furono stroncate le carriere di uomini politici di rango, aprendo così la strada a una classe politica meno preparata
La scomparsa di Arnaldo Forlani, mancato ieri all’età di 97 anni, ha riportato alla memoria la vicenda della Democrazia cristiana, della quale Forlani è stato uno dei leader più ragguardevoli. Veniva dalla corrente fanfaniana, allora di sinistra, come Aldo Moro, simmetricamente, veniva da quella dorotea, di destra. Anche questa mobilità nella dialettica interna era un carattere peculiare dalla Dc. Nella fase in cui assunse la guida del partito, dopo l’assassinio di Moro, Forlani guidò la fuoruscita dal compromesso storico, che il suo avversario Benigno Zaccagnini pensava potesse essere rianimato. Dopo una prima sconfitta, Forlani prevalse poi e divenne l’artefice principale di parte cattolica dei governi di pentapartito. Segretario del partito dal 1989 si trovò a fare i conti con la stagione giustizialista di Mani pulite. Condannato per finanziamento illecito, soprattutto in base al teorema della “responsabilità oggettiva” concluse così la sua attività politica.
Oltre che sulla sua storia di leader sarebbe bene riflettere, ora che si sentono nuovamente i tam tam del giustizialismo, sul modo in cui furono stroncate le carriere di uomini politici di rango, aprendo così la strada a una classe politica meno preparata che è una delle ragioni della prevalenza delle leadership personali. Forlani, al confronto con Bettino Craxi e Giulio Andreotti, con i quali aveva stretto vari patti di governo, appariva come la personalità meno caratterizzata. Sfuggiva a ogni posa e a ogni esibizionismo, non si esibiva nelle battute fulminanti o negli slogan propagandistici, considerava la politica un lavoro quotidiano, una continua tessitura di accordi e di mediazioni, ma in realtà è stato per quasi un decennio l’architrave su cui si è retto l’equilibrio politico nazionale. Anche il documento che portava il suo nome, aveva un titolo quasi dimesso: il “preambolo Forlani”, in realtà scritto da Carlo Donat Cattin, ebbe però un ruolo decisivo nella costruzione di un assetto politico, quello del pentapartito, in cui la Dc in sostanza rinunciava al monopolio della presidenza del consiglio per consolidare un’alleanza che assicurava la governabilità, mentre il Pci si ritirava sulla sponda della “questione morale” e di un’alternativa inesistente.
La democrazia italiana, come tutte le democrazie occidentali, era condizionata da un quadro internazionale bipolare, che rendeva scarse e frammentarie le possibilità di partecipazione dei comunisti alle maggioranze, in Italia come in Francia, e Il pentapartito di Forlani fu la sanzione di questa situazione. Quando, con la dissoluzione dell’Unione sovietica, questo quadro fu superato, anche quell’esperienza politica perse la sua base fondamentale. E’ su questa crisi che si innestò il tentativo giustizialista di cambiare le classi dirigenti politiche per via giudiziaria. La manovra riuscì a decapitare il pentapartito, ma l’inattesa scesa in campo di Silvio Berlusconi diede nuova vita alle tesi sostenute nel famoso preambolo. A trent’anni di distanza dalla liquidazione di Forlani (e di Craxi e di altri leader di quella stagione) il bilancio di quella stagione può essere steso in modo più pacato. La sostituzione di una dialettica tra formazioni politiche con una base organizzata con il populismo giustizialista ha prodotto un sistema fragile, spesso messo in crisi e sostituito da tentativi tecnocratici, talora efficaci, come quelli di Carlo Azeglio Ciampi e di Mario Draghi, altre volte mediocri, ma comunque sintomatici della patologia di un sistema in cui la sovranità popolare rischia sempre di essere messa in un angolo. Rischi che i risvegli giustizialisti di questi giorni rendono nuovamente attuali.