Il metodo dell'antimafia dei veleni. Così si costruiscono teoremi capaci di scavalcare qualsiasi sentenza
La Cassazione ha detto che lo stato non è mai sceso a patti con i boss di Cosa Nostra per sovvertire l’ordine democratico, ma i magistrati della famigerata trattativa ha preferito non ascoltarla. La Repubblica fondata sul losco comparaggio del potere politico con le stragi è una grande boiata
"La luce taglia le tenebre ma le tenebre non l’afferrano”, annotava l’apostolo Giovanni in apertura del suo Vangelo. Si riferiva ai misteri dell’universo, all’eterna lotta tra bene e male, al difficile cammino della ragione per afferrare la verità. Un’annotazione terribilmente attuale per chiunque voglia capire che cosa è successo, da trent’anni a questa parte, attorno al mistero delle stragi. Mysterium iniquitatis, per dirla ancora una volta con le Sacre Scritture. La luce della Cassazione, con una sentenza che non si presta né ad equivoci né a interpretazioni, ha tagliato le tenebre di un processo durato quasi dodici anni, ha smontato le elucubrazioni di una boiata pazzesca e ha detto chiaro e tondo che lo stato non è mai sceso a patti con i boss di Cosa Nostra per sovvertire l’ordine democratico. Ma la confraternita di magistrati che avevano teorizzato la famigerata trattativa, ha preferito non ascoltare le parole della Cassazione e ha ripreso a vagare tra le nebbie e le tenebre del vecchio teorema secondo il quale dietro le stragi mafiose del 1992 – quelle dove morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ci sarebbe stata la regia occulta di alcuni settori deviati dello stato. Un teorema fosco che si compiace ancora di immaginare un tavolo ovale dove accanto ai boss di grosso calibro, come Totò Riina, sanguinario capo dei corleonesi, o come Giovanni Brusca, il killer dei cento omicidi, sedevano uomini delle istituzioni, generali dei carabinieri, investigatori venduti e felloni, riuniti insieme per spargere sangue e terrore.
Lo scellerato teorema dello Stato-Mafia finirà per avvelenare anche oggi, 19 luglio, la cerimonia in ricordo di Paolo Borsellino, trucidato con la sua scorta in via D’Amelio, mentre di domenica andava a fare visita alla mamma. Un filone dell’antimafia chiodata, quella delle Agende Rosse, da sempre fiancheggiatrice dei magistrati che hanno costruito l’inchiesta sulla Trattativa, lascia intravedere uno scontro frontale con l’altra antimafia, quella delle cerimonie, delle corone di fiori e della liturgia commemorativa. Ci saranno cortei e controcortei e, molto probabilmente, finirà pure a botte con la polizia, come il 23 maggio scorso per l’anniversario della strage di Capaci e dell’assassinio di Giovanni Falcone, saltato in aria assieme alla moglie, Francesca Morvillo e ai ragazzi della scorta.
Il modulo, per gli oltranzisti dell’antimafia, è sempre lo stesso. Le sentenze non contano più nulla: “La verità viene e va, cambia solo l’errore”, annotava Fernando Pessoa. Contano sempre più i teoremi. Perché i teoremi non hanno bisogno di prove: si annunciano, si danno in pasto ai giornali, si ci costruiscono sopra folgoranti carriere, si sputtanano tutti quelli che devono essere sputtanati, e se poi le indagini, come succede quasi sempre, non approdano a nulla, chi se ne frega: se ne inventano altri.
Gli esempi non mancano. Prendete Silvio Berlusconi, pace all’anima sua. Non c’è procura altamente titolata – da Palermo a Caltanissetta – che non abbia apparecchiato un’inchiesta, che non abbia consultato i pentiti di ogni ordine e grado, che non abbia disposto perquisizioni e accertamenti patrimoniali, che non abbia istallato cimici e ordinato intercettazioni per disegnare una sua responsabilità, diretta o indiretta, nel romanzo maledetto delle stragi. Inquirenti e inquisitori, come sanno pure i bambini, non hanno cavato un ragno dal buco; intanto però hanno tenuto sulla graticola per almeno vent’anni un uomo potente e altrettanto decisivo per la politica italiana. E la gogna non è ancora finita: dopo Palermo e Caltanissetta, come si ricorderà, è scesa in campo Firenze e il gioco – il tragico gioco – è tornato alla casella di partenza. Morto un teorema, se ne fa un altro.
Il filo conduttore è sempre quello: lo Stato-Mafia. Il cui volto cambia a secondo dei pubblici ministeri che si incaricano di rivelarlo. Per i coraggiosi magistrati palermitani – da Antonio Ingroia a Nino Di Matteo – che hanno messo in piedi il processo sulla Trattativa, i volti erano quelli di Mario Mori e Antonio Subranni, generali del Ros, il reparto d’eccellenza dei carabinieri: due alti ufficiali traditori che, in combutta con i boss della mafia, volevano costringere i poteri dello stato a revocare il carcere duro, l’insopportabile 41 bis, ai condannati per mafia. Per Luca Turco e Luca Tescaroli, magistrati di Firenze, le facce dello Stato-Mafia sarebbero invece quelle di Berlusconi e di Marcello Dell’Utri, interrogato, manco a dirlo, proprio ieri: secondo l’ipotesi di reato, formulata dalla procura, i due avrebbero spinto i terribili boss di Brancaccio, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, a compiere stragi su stragi al solo scopo di creare scompiglio, da Milano a Reggio Calabria, e avere la strada spianata per lanciare il partito di Forza Italia e impadronirsi delle principali leve di potere esistenti nel paese.
A Mario Mori e ad Antonio Subranni la Cassazione ha comunque restituito, dopo dodici anni di sofferenze e umiliazioni, l’onore delle armi. E non poteva essere diversamente: erano stati gli uomini del Ros, comandati da Mori, a catturare il 15 gennaio del ’93 alla Circonvallazione di Palermo, Totò Riina, feroce capo dei picciotti che avevano collocato il tritolo prima sotto l’autostrada di Capaci e poi in una vecchia Fiat 126 posteggiata in via D’Amelio. E sono stati sempre gli uomini del Ros a segnare, retata dopo retata, la sconfitta dell’ala militare di Cosa Nostra, fino al clamoroso arresto di Matteo Messina Denaro, ultimo boss stragista ancora latitante, caduto nella rete il 16 gennaio di quest’anno. Ma all’antimafia militante – quella che tiene insieme i più coraggiosi tra i magistrati coraggiosi, alcuni familiari delle vittime e i più vivaci esponenti del circo mediatico – questi dettagli, chiamiamoli così, non interessano poi tanto. Per questa puntuta confraternita della lotta alla mafia, l’obiettivo non è la verità giudiziaria, sancita da un verdetto del Tribunale, di una Corte di appello o della Cassazione, ma la criminalizzazione dello stato, dei suoi servizi di sicurezza e dei suoi apparati investigativi: sempre e comunque impegnati in congiure e depistaggi, in coperture e sabotaggi.
Alla confraternita serve una perenne non-verità, come lo Stato-Mafia. Perché la non-verità offre la possibilità ai magistrati coraggiosi – a quelli più astuti o a quelli più politicizzati – di costruire teoremi capaci di scavalcare qualsiasi sentenza e di imbastire sempre nuovi processi; e dà al circo mediatico che li supporta l’opportunità di “rivelare”, a getto continuo, una fitta serie di trame oscure, mandanti esterni, registi occulti e tutto l’armamentario da fiction che, sullo sfascio generale della giustizia, consente ad attori e comparse di rilasciare un’intervista dietro l’altra, di conquistare audience in tv, di pubblicare libri che reclamizzano le loro tesi, di saltellare da un convegno all’altro, di tenere lezioni nelle scuole, di collezionare cittadinanze onorarie, di essere a ogni passo protetti da scorte imponenti e incomprensibili. E, quando si avvicina l’età della pensione, di conquistare pure un seggio alla Camera o al Senato della Repubblica. Di quella Repubblica fondata – stando ai teoremi che hanno tenacemente cavalcato – sul losco comparaggio del potere politico con la mafia, col malaffare, con la corruzione. E, perché no, anche con le stragi.