giustizia
Con la sentenza sul caso Ferri, la Corte costituzionale ha posto il Parlamento nelle mani dei pm
La Consulta ha annullato la deliberazione con cui, il 12 gennaio 2022, la Camera ha negato alla sezione disciplinare del Csm l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni riguardanti Ferri. Le implicazioni riguardano gli stessi equilibri tra potere politico e potere giudiziario
Un Parlamento sotto scacco dei pubblici ministeri. Sono queste le implicazioni, ignorate un po’ da tutti, della sentenza della Corte costituzionale sul caso di Cosimo Ferri, magistrato fuori ruolo e parlamentare per diverse legislature. Giovedì scorso la Corte ha accolto il conflitto di attribuzioni sollevato dal Consiglio superiore della magistratura nell’ambito del procedimento disciplinare a carico di Ferri. Di conseguenza, ha annullato la deliberazione con cui, il 12 gennaio 2022, la Camera dei deputati ha negato alla sezione disciplinare del Csm l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni riguardanti Ferri ottenute nella famosa riunione all’Hotel Champagne del 9 gennaio 2019. La riunione, come noto, coinvolse il parlamentare, diversi componenti togati del Csm, il collega deputato Luca Lotti e Luca Palamara (nel cul cellulare era stato installato un trojan), e fu incentrata sulla nomina del nuovo procuratore di Roma.
La Corte costituzionale ha stabilito che l’utilizzo delle intercettazioni non richiedesse, come invece sostenuto dalla Camera dei deputati, l’autorizzazione preventiva (a norma dell’articolo 4 della legge 140/2003), non risultando che l’attività di indagine “fosse univocamente diretta a intercettare anche le comunicazioni dell’onorevole Ferri”. Per il fatto di aver negato l’autorizzazione sul presupposto dell’assenza di un’autorizzazione preventiva, in realtà non necessaria, senza invece pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione successiva (a norma dell’articolo 6 della legge 140/2003), la Camera dei deputati ha quindi, secondo la Consulta, “esercitato sì attribuzioni ad essa in astratto spettanti, ma, in concreto, travalicandone i limiti”.
La Corte ha stabilito pertanto che “la richiesta di autorizzazione avanzata dalla sezione disciplinare richiede una nuova valutazione, da parte della stessa Camera dei deputati, della sussistenza dei presupposti ai quali l’utilizzazione delle intercettazioni effettuate in un diverso procedimento è condizionata”.
Come dicevamo, le implicazioni della pronuncia dei giudici costituzionali sono radicali e riguardano gli stessi equilibri tra potere politico e potere giudiziario.
Tutto ruota attorno alla distinzione tra intercettazioni casuali e indirette: nel primo caso, il parlamentare viene intercettato in maniera del tutto fortuita; nel secondo caso, invece, egli è l’obiettivo ultimo dell’azione investigativa. In altre parole, i pm intercettano i soggetti che ruotano attorno al parlamentare per captare conversazioni che lo vedono come protagonista. Anche in questo caso, a differenza delle captazioni “casuali”, il pm è tenuto a chiedere l’autorizzazione preventiva al Parlamento per utilizzare le captazioni. Nel caso di Ferri, la Sezione disciplinare del Csm ritiene le intercettazioni “casuali”, nonostante in realtà Palamara e lo stesso Ferri avessero programmato l’incontro all’Hotel Champagne poche ore prima proprio al telefono, e si fossero sentiti in varie occasioni nei giorni precedenti.
Questa lettura è stata accolta dalla Corte costituzionale, che con la sentenza dei giorni scorsi ha nella sostanza ribaltato la propria giurisprudenza sulla materia.
I giudici hanno infatti affermato che se la “direzione dell’atto di indagine non presuppone necessariamente la qualità di indagato (del parlamentare, ndr), è pur vero che l’assenza di tale qualità non può dirsi del tutto irrilevante quando, come nel caso in esame, si registri il difetto di un qualsivoglia coinvolgimento del parlamentare nel processo penale (sia preventivo che successivo anche solo come persona offesa o informata sui fatti)”. In altre parole, se il parlamentare non è indagato, né persona offesa o informata sui fatti non può dirsi destinatario dell’atto di indagine e quindi è liberamente intercettabile.
Si tratta proprio del contrario di quanto affermato dalla Corte costituzionale fino a pochi giorni fa: “L’art. 68 Cost. mira a porre a riparo il parlamentare da illegittime interferenze giudiziarie sull’esercizio del suo mandato rappresentativo; a proteggerlo, cioè, dal rischio che strumenti investigativi di particolare invasività o atti coercitivi delle sue libertà fondamentali possano essere impiegati con scopi persecutori, di condizionamento, o comunque estranei alle effettive esigenze della giurisdizione” (sentenza 390 del 2007).
In altri termini, secondo la precedente giurisprudenza non vi era alcun bisogno di intercettare il parlamentare quando le sue comunicazioni non riguardassero l’indagine. Questo al fine di tutelare la funzione del Parlamento da “indebite invadenze del potere giudiziario”.
Nel caso di Ferri, la Corte ha finito per affermare proprio il contrario, e cioè che il parlamentare, anche se è estraneo all’indagine, può essere liberamente intercettato. Con buona pace della tutela del libero esercizio del mandato parlamentare.