Pietro Grasso e il Fatto rischiano di essere vittime delle proprie fake news sul caso Renzi
"Il cellulare di un mafioso non potrà più essere usato se scrive a un parlamentare”, dissero il senatore e Peter Gomez a proposito del conflitto di attribuzione proposto da Renzi contro la procura di Firenze. Una balla grossa come una casa
“Così il cellulare di un mafioso non potrà più essere usato se scrive a un parlamentare”. Fu questo l’allarme che Peter Gomez lanciò sul Fatto quotidiano nel febbraio 2022, all’indomani del voto favorevole del Senato al conflitto di attribuzione proposto da Matteo Renzi contro la procura di Firenze per l’indagine sulla fondazione Open (conflitto accolto giovedì dalla Consulta, che ha dato torto ai pm fiorentini). Una balla grossa come una casa, che aveva trovato spunto dalle parole espresse in Aula al Senato nientedimeno che dal senatore ed ex magistrato antimafia Pietro Grasso.
Motivando il suo voto contrario al conflitto di attribuzione, Grasso aveva affermato che secondo una consolidata giurisprudenza della Cassazione, i messaggi WhatsApp, sms ed e-mail oggetto della discussione (quelli sequestrati nei cellulari di terzi ma riguardanti il senatore Renzi) “non rientrano nella nozione di corrispondenza, né costituiscono attività di intercettazione”, ma sono da considerarsi come semplici “documenti”. Di conseguenza, per Grasso la procura di Firenze avrebbe fatto bene ad acquisire quelle conversazioni senza chiedere l’autorizzazione del Senato. Anche perché, spiegò poi Grasso, in caso contrario “basterebbe che in un telefono sequestrato a un mafioso vi fosse un WhatsApp a un parlamentare per determinarne l’inutilizzabilità anche nei confronti del mafioso”.
Queste parole vennero subito riprese dai megafoni del giustizialismo. Sul Fatto quotidiano, Peter Gomez sostenne che, qualora la Corte costituzionale avesse accettato la tesi del Senato, i telefonini di spacciatori e delinquenti non sarebbero stati più sequestrabili se contenenti chat con un parlamentare: “E’ facile prevedere che molti di loro si attrezzeranno per trovare numeri di telefono di parlamentari per poi inviare loro messaggi a caso. Basterà che un eletto risponda ‘Chi sei?’ per sperare di farla franca”.
Più che a una fake news sembrò di essere di fronte a un’opera di terrorismo mediatico svolta in palese malafede. Già all’epoca infatti era chiaro a chiunque, persino a non giuristi, che, qualora la Consulta avesse accolto la tesi del Senato, soltanto l’acquisizione di chat, sms ed e-mail riguardanti il parlamentare sarebbe stata sottoposta all’autorizzazione della Camera di appartenenza, ma non tutte le conversazioni contenute nel telefono del presunto mafioso o criminale. E poi: qualcuno poteva davvero immaginare un’orda di criminali intenti a tallonare i parlamentari per avere il loro numero di telefono e garantirsi così l’impunità? Gli scenari offerti dai forcaioli a volte superano ogni genere di fantasia.
Il problema, volendo ironizzare, è un altro. “Dichiarandoci sconfitti, ci sentiamo in dovere anche noi di approfittare della situazione e di tifare perché la Corte costituzionale dia ragione a Renzi – scrisse ancora Gomez –. Se così sarà anche i nostri telefonini, pieni zeppi di messaggi con gli eletti, diventeranno da un giorno all’altro non sequestrabili. Grazie Matteo”.
Ecco, qualcuno avvisi Peter Gomez, i lettori del Fatto e anche Pietro Grasso che non c’è niente da festeggiare: il cellulare rimane sequestrabile, come quello di qualsiasi cittadino, anche se contiene messaggi scambiati con membri del Parlamento. Non vorremmo che i giudici della Corte costituzionale li abbiano sulla coscienza.
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