L'editoriale del direttore
Gli ipocriti dello sputtanamento. L'inchiesta di Perugia, tra dossieraggio e fango legale
Il vero dramma del meccanismo che emerge dall’indagine della procura umbra è questo: la possibilità che venga confermato che è del tutto legale avere una giustizia malata, tarata per entrare discrezionalmente nella vita degli altri
L’indagine aperta dalla procura di Perugia sui presunti dossieraggi illeciti realizzati da un ufficiale della Guardia di Finanza per lungo tempo in servizio alla Direzione nazionale antimafia offre spunti di riflessione interessanti in entrambi gli scenari possibili. Sia nel caso in cui l’indagine dovesse illuminare atti illeciti. Sia nel caso in cui l’indagine dovesse certificare atti perfettamente legali. Nel primo caso, ci troveremmo di fronte a un accesso abusivo a sistemi informatici da parte di un ufficiale della Guardia di Finanza. Nel secondo caso, ci troveremmo invece di fronte alla certificazione di un meccanismo tanto legale quanto perverso: la possibilità cioè di poter avere nel nostro sistema giudiziario delle figure perfettamente legittimate a spiare in modo del tutto discrezionale nelle vite degli altri accumulando con il metodo della pesca a strascico informazioni su informazioni senza doverne dare conto a nessuno.
Ieri sul Corriere della Sera Giovanni Bianconi ha raccontato che l’ufficiale indagato si è difeso spiegando di essersi attenuto, “in maniera del tutto lecita”, a un protocollo instaurato all’interno della Direzione nazionale antimafia (sosteneva di essere autorizzato, dice Bianconi riportando le parole dell’ufficiale, a muoversi liberamente tra le varie banche dati sulla base di spunti investigativi individuati anche di propria iniziativa). E sulla Verità Giacomo Amadori ha aggiunto che l’ufficiale incriminato lavorava seguendo regole che gli consentivano di accedere liberamente alle banche dati senza dover compilare o firmare moduli di richiesta di autorizzazione. Nel momento in cui scriviamo non sappiamo ovviamente se le accuse nei confronti dell’ufficiale incriminato si riveleranno solide (non è ancora chiaro se l’indagine sia stata spostata da Roma a Perugia, procura competente per le indagini sui magistrati di Roma, a causa della presenza nell’inchiesta di un magistrato complice del presunto dossieraggio oppure vittima). Ma sappiamo che, nel caso in cui la prassi descritta dovesse confermarsi lecita, non sarebbe un fulmine a ciel sereno. Sarebbe purtroppo solo la conferma di un metodo patologico presente nel nostro sistema giudiziario. E il copione è sempre lo stesso. Attori del circo mediatico che a vari livelli e senza dover rendere conto a nessuno hanno accesso a un numero spropositato di dati sensibili che possono utilizzare arbitrariamente per sputtanare il prossimo senza che magari vi sia la presenza di un reato a giustificare né le ricerche né la diffusione delle informazioni.
Si individua un teorema, poi si cercano le prove e se non si trovano le prove si passano le informazioni agli stessi giornali che dopo averne tratto beneficio editoriale denunciano lo scandalo. Il circo mediatico funziona così, in una logica demoniaca anche perché il più delle volte il sistema adottato è perfettamente legale. E funziona così purtroppo, da anni, anche la Procura nazionale antimafia: un organismo non operativo, che non può portare avanti iniziative esterne, che non è mai sottoposto al controllo di un giudice terzo e che essendo sottoposto solo a controlli interni può facilmente accumulare dati processuali ed extraprocessuali infiniti. Il meccanismo perverso che si trova dunque alla base dell’indagine aperta dalla procura di Perugia è lo stesso che alimenta gli ingranaggi incancreniti della giustizia italiana. E il dramma di questo meccanismo, che alimenta ogni giorno il nostro circo mediatico-giudiziario, non è la possibilità che risulti illegale ma è la possibilità che ancora una volta venga confermato che sia perfettamente legale avere una giustizia capace di occuparsi discrezionalmente e senza controllo della vita degli altri.