la rassegna
Le bizzarre sentenze estive dei giudici sui casi di violenza sessuale
Dall'assoluzione a Firenze dei due ragazzi accusati di stupro su una diciottenne (sotto effetto di alcool) al proscioglimento a Roma del bidello che ha palpeggiato "per pochi secondi" una studentessa
Deve essere stata un’estate piuttosto calda negli uffici giudiziari sparsi per il paese. Lo si deduce dalla mole di sentenze “bizzarre” emesse nelle ultime settimane soprattutto in tema di violenza contro le donne. L’ultima, in ordine di tempo, è giunta da Firenze, dove il giudice delle indagini preliminari ha assolto due imputati (diciannovenni all’epoca del fatto) accusati di violenza sessuale di gruppo ai danni di una diciottenne durante una festa in casa.
Il giudice ha ritenuto i due giovani non punibili “per errore sul fatto che costituisce reato”. In altre parole, la violenza sessuale c’è stata ma i due non avrebbero percepito il rifiuto della ragazza, alterata dall’assunzione di alcool e marijuana. Nelle motivazioni si legge che i due hanno agito colposamente, “ponendo in essere una condotta certamente incauta, ma non con la piena consapevolezza della mancanza di consenso della ragazza o della sua preponderante alterazione psicofisica”. Lei ha raccontato di aver provato a sottrarsi alla violenza e di aver detto ai ragazzi di smetterla, ma invano. Uno di questi avrebbe persino chiesto “ma questo è uno stupro?”, venendo rassicurato dall’altro: “No, no tranquillo”.
“L’errata percezione degli imputati, se non cancella l’esistenza oggettiva di una condotta di violenza sessuale – si legge nella sentenza – impedisce di ritenere penalmente rilevante la loro condotta” (nel nostro ordinamento, infatti, non esiste il reato di stupro colposo). Insomma, a mancare è l’elemento soggettivo del reato. Violenza sì, ma senza consapevolezza. Una conclusione paradossale, destinata con probabilità a cadere nei successivi gradi di giudizio, soprattutto alla luce della giurisprudenza della corte di Cassazione, che non ammette “l’errore” come scusante da parte di chi violenta una donna.
Ancor più clamore hanno generato due sentenze adottate dal tribunale di Roma, in entrambi i casi da un collegio presieduto dalla giudice Maria Bonaventura. Nel primo caso, il tribunale ha assolto dall’accusa di violenza sessuale un bidello dell’istituto Cine-Tv Roberto Rossellini, reo di aver palpeggiato i glutei di una studentessa per “una manciata di secondi”. Anche qui per i giudici non c’è nessun dubbio sull’avvenuta violenza sessuale: l’uomo ha infilato le mani dentro i pantaloni e poi sotto gli slip della ragazza, mentre questa saliva le scale. A mancare, però, è l’elemento soggettivo: “La repentinità dell’azione, senza alcun’insistenza nel toccamento (…) non consente di configurare l’intento libidinoso o di concupiscenza generalmente richiesto dalla norma penale”.
A escludere la volontarietà non è solo la repentinità dell’azione: “Appare verosimile – scrivono i giudici – che lo sfioramento dei glutei sia stato causato da una manovra maldestra dell’imputato che, in ragione della dinamica dell’azione, posta in essere mentre i soggetti erano in movimento e in dislivello l’uno dall’altra, potrebbe avere accidentalmente e fortuitamente attivato un movimento ulteriore e non confacente all’intento iniziale”. Al lettore la decisione se ridere o piangere.
Nel secondo caso, il collegio presieduto da Bonaventura ha prosciolto il dirigente di un museo che molestava una sua dipendente con fremiti, palpeggiamenti e anche azioni più esplicite (sarebbe arrivato a leccarla e a morderle le orecchie, e a infilarle la lingua in bocca), con queste parole: “Non si può escludere che la parte lesa, probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l’atteggiamento dell’imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente”.
Insomma, la vittima della violenza sessuale sarebbe in realtà soltanto “complessata” dal proprio fisico, e per questo avrebbe travisato i comportamenti del dirigente. Interpellata dal Corriere della Sera, la giudice Bonaventura ha risposto: “Il mio ruolo mi conferisce autonomia e indipendenza”. Che nel caso dei magistrati suonano spesso come “irresponsabilità”.