il progetto
Una telefonata per salvare la vita, anche in carcere. Proposta per superare l'inutile “tough on crime”
Statistiche italiane e mondiali dimostrano che pene alternative e trattamenti umani diminuiscono le recidive. Utilizzarli è un vantaggio sociale. Ad esempio l’uso del telefono
Il suicidio di due detenute ha riportato all’attenzione la condizione carceraria. Di fronte all’insondabilità del gesto estremo, da chiunque e in qualunque circostanza compiuto, sta il rispetto e il silenzio. Ma in questi casi si è trattato di persone in “custodia” delle istituzioni penitenziarie dello Stato. La pausa ferragostana ci consente di archiviare osservazioni stravaganti e irrispettose e soluzioni miracolistiche irrealizzabili. Attenti commentatori e studiosi esperti hanno riproposto l’urgenza di interventi per ricondurre il carcere, per gli imputati e per i condannati, ai principi della nostra Costituzione, che quando parla di funzione rieducativa della pena rimanda al “dopo” e al “fuori”. Inoppugnabili statistiche anche di recente pubblicate, mostrano come la percentuale di ricaduta nel reato, di recidiva, sia incomparabilmente più bassa per coloro che, in luogo di espiare in carcere tutta la pena, sono stati ammessi ad attività lavorativa all’esterno e a misure alternative.
Come sempre i dati vanno letti con attenzione e si tratta in questi casi di soggetti per i quali era già stata fatta una prognosi positiva per il reinserimento sociale. Ma si deve, in senso opposto, considerare quanti detenuti, per i quali una prognosi positiva era stata fatta, non sono stati in concreto ammessi alle misure alternative per i ritardi del procedimento davanti alla magistratura di sorveglianza, e ancora a quanti non hanno avuto una prognosi positiva solo per la carenza del personale di assistenti sociali e ancor prima degli agenti di polizia penitenziaria. Senza confusione di ruoli con educatori e assistenti sociali ricordiamo che non è solo un cambio lessicale che la legge non parli più di “agenti di custodia”; sono loro a contatto quotidiano con i detenuti e sono i primi a poter segnalare situazioni di disagio estremo, ma certo non giova la tensione cui sono quotidianamente soggetti per la insufficienza numerica.
Tough on crime è il motto della destra americana e all’imperativo del “duri con il crimine” non si sottraggono larghi settori dei liberal timorosi di perdere consensi. Il risultato è inequivoco: gli Stati Uniti, che mantengono e applicano, unico paese tra le democrazie occidentali, la pena di morte, che hanno un tasso di carcerazione superiore di quasi dieci volte alla media europea, presentano percentuali di recidiva impressionante e un numero di omicidi elevatissimo. Se non si vuole fare appello ai principi di umanità, per essere “duri con il crimine” ci si confronti almeno con un criterio di utilità. Meno si ricorre al carcere per reati minori, meno sono “alte” le mura del carcere, più si applicano misure alternative, più sicurezza alla fine vi è per quelli che stanno “fuori”. Il percorso di reinserimento dei condannati nella società, i dati statistici lo dimostrano, è un efficace, anche se ovviamente non risolutivo, antidoto alla recidiva. Tutt’altro che “buonismo”, ma politica per garantire maggiore sicurezza.
Il carcere come pena ha una storia recente, poco più di due secoli, ma è uno strumento cui le nostre società sono costrette a ricorrere. Già durante la detenzione il rispetto di principi di umanità e di dignità, e l’attenzione a ridurre tutto ciò che non è necessitato dalla privazione della libertà, non è buonismo, ma un “investimento” sul recupero sociale. Si è parlato in questi giorni del regime delle telefonate e dell’ampliamento disposto durante l’epidemia Covid, come alternativa ai colloqui, poi rientrato. La attuale normativa è stata scritta in un tempo in cui il telefono era un grosso apparecchio domestico e dalle cabine su strada si telefonava ben poco, se non con una robusta provvista di gettoni. I tempi sono cambiati, oggi la vita di relazione di tutti si svolge largamente attraverso il telefono, in audio e anche in video. Per la grande maggioranza dei detenuti, che non ha contatti con la criminalità organizzata, si impone un drastico ampliamento (ovviamente con le opportune garanzie di sicurezza) delle telefonate, audio e anche video. Aiuta ad allentare la tensione in carcere, consente di mantenere legami affettivi ed amicali che non vi è ragione di troncare, ricorda al detenuto che la vita è “fuori” e non quel “dentro” dove ora si trova.
Proposte precise e dettagliate sulle telefonate sono state avanzate da due Commissioni ministeriali, cui hanno contributo i maggiori esperti in materia, la “Commissione Giostra” e la “Commissione Ruotolo” dal nome dei presidenti prof. Glauco Giostra e prof. Marco Ruotolo. Le proposte di riforma complessiva, molto ampie ed articolate, per le vicende della politica, sono rimaste lettera morta, ma le Relazioni sono pubbliche e ben note nel ministero della Giustizia. Si consenta a un magistrato in pensione che, quale magistrato di sorveglianza ebbe alla metà degli anni Settanta ad applicare le grandi novità delle Riforma penitenziaria, di avanzare oggi una proposta ardita. Le due o tre norme, radicalmente innovative, della Commissione Ruotolo sull’ampliamento stabile delle telefonate sono pronte e immediatamente attuabili, con pochi accorgimenti tecnici. Si ricorra a quello strumento del Decreto legge, una volta tanto “necessario ed urgente”, a differenza delle tante altre volte in cui tutti i governi ne hanno abusato.