Il racconto

"Collaborare con la giustizia è sacrosanto, ma ha un costo molto alto". Storia del pentito Niro e della sua famiglia

Ha tradito la mafia del Gargano rifiutando di uccidere un procuratore e ha chiesto aiuto allo stato, raccontando i segreti di un'organizzazione all'epoca ancora poco conosciuta. Ma rifarsi una vita è stata un'impresa e ora che Antonio non c'è più ne pagano ancora il conto la moglie e i figli. Ecco le falle nel programma di protezione per testimoni

Lorenzo Giroffi

È morto Antonio Niro, per gli intimi Nino. Da qualche tempo però questi non erano più il suo nome e cognome. Niro aveva cambiato identità dopo aver collaborato con la giustizia e scelto di diventare un pentito, costringendo la famiglia a entrare nel piano di protezione per testimoni. Una volta usciti dal piano, per lui, la moglie e i due figli sono arrivate le nuove identità. Ma anche molte difficoltà.

 

La notizia della sua morte è una notizia perché a Niro si devono le prime rivelazioni su un’associazione criminale misteriosa, con un numero di pentiti bassissimo: Niro è stato tra i primi a collaborare tradendo la mafia del Gargano. Quella mafia fatta di famiglie che del vincolo di sangue fanno un testamento unico, dal quale si torna raramente indietro. Quando Niro decise di collaborare con la giustizia, la mafia del Gargano non poteva contare su alcuna produzione cinematografica, alcuna coscienza sul tema. Era considerata una criminalità locale, con qualche affare di terre e bestiami. Invece l’organizzazione poteva già contare sul traffico internazionale di stupefacenti, che è sempre stata la vera base economica per i cartelli del Gargano.

 

La mafia in Puglia si riconosce nella denominazione di Società foggiana. Niro, durante i nostri incontri, mi ha raccontato degli appartamenti disseminati nel foggiano a disposizione della Società, delle schede sim che cambiava e della rete di fedelissimi che garantivano al boss Roberto Sinesi un ambiente tranquillo per i suoi affari. Niro era un affiliato del clan Sinesi. Era un corriere. Ma il traffico di cocaina a un certo punto non bastava più. A Niro venne chiesto di “stipare” - ovvero ammazzare - l’allora giovanissimo procuratore Giuseppe Gatti. Il magistrato stava mettendo sotto la lente d’ingrandimento gli intrecci tra appalti pubblici e clan. A Niro venne data una fotografia del magistrato, una Magnum 357 e l’ordine di ammazzare il sostituto procuratore in pieno giorno, di mattina, confidando sul fatto che Gatti non avesse scorta. Niro rifiutò e il clan gli si scagliò contro. Così chiese aiuto allo stato. Scontò in carcere quanto doveva ed entrò nel programma di protezione. La famiglia Niro iniziò la sequela di trasferimenti in città diverse, ottenne i documenti e i soldi per una nuova casa.

 

Negli ultimi anni ho incontrato diverse volte Niro. Speravo potesse farmi capire  su cosa si fondasse la solidità dei clan foggiani, spiegarmi le relazioni internazionali che le famiglie della Società hanno stretto con i narcotrafficanti albanesi e le connessioni  che hanno in nord Europa. Ci siamo incontrati in alberghi di fortuna, in parchi pubblici e poi nella casa che era riuscito a ottenere per la famiglia. Da quel momento gli aspetti criminali della sua vicenda sono passati in secondo piano. Non era un Buscetta, anche se è stato molto utile alla magistratura italiana, nella sua carriera criminale non aveva avuto un grande peso. Era stato pedina di una mafia feroce e quello che poteva dire l’aveva detto. A incuriosire era però la sua vicenda umana. Da San Severo e i suoi luoghi di origine ha sempre ricevuto porte in faccia, è stato rinnegato. La stessa cosa è successa a sua moglie. Sono rimasti soli. Infami per gli affetti di un tempo e ormai liquidati dal piano di protezione.

 

A un uomo con ormai tanti anni sul groppone e qualche acciacco fisico, avere una nuova identità non restituisce grandi opportunità. Nella nuova città Niro ha provato a reinserirsi. Lui e la moglie hanno fatto i lavori più disparati, ma senza continuità. Chi collabora con la giustizia ha dei benefici, una liquidazione per la nuova casa e il suo arredo. Ma il nuovo nome all’anagrafe non cancella gli errori del passato. Sulla nuova identità vengono caricati tutti i precedenti penali: il casellario giudiziario non viene ripulito e verificando le generalità i vecchi reati escono fuori dalla banca dati. Una zavorra nei colloqui di lavoro. Quando una qualsiasi azienda si ritrova dinanzi la possibilità di dover assumere una persona con reati così gravi, il più delle volte declina la candidatura. È successo a Niro, nonostante non si chiamasse più così. Per azzerare il casellario giudiziario esiste la procedura di riabilitazione, ma devono passare diversi anni dalla condanna definitiva e resta un percorso complicatissimo per chi non ha fondi, perché bisognerebbe risarcire tutte le vittime dei reati.

 

Niro è morto improvvisamente lo scorso luglio, dopo essersi ammalato. Cosa succede a chi è entrato nel piano di protezione e poi ne è uscito? La moglie di Niro, la figlia e il figlio lo vivono ogni giorno. Negli stenti di un’esistenza che è cambiata nuovamente.

 

Da quando è venuto a mancare il loro caro, la moglie L. e la figlia R. si sentono assediate. Forse sono solo suggestioni. Gente che le segue, paure di vendette trasversali. Le paranoie diventano sempre più reali visto lo stato di precarietà nel quale vivono. Si chiedono cosa sarebbe stata la loro vita se Niro non si fosse pentito. R. rivendica la scelta del padre. Ricorda quando andava a trovarlo in carcere e da bambina la mamma gli faceva credere che quello fosse il posto di lavoro del papà, quando a scuola le chiedevano come mai facesse confusione sul proprio nome. Lei ha sempre avuto ben in mente che il padre stesse facendo qualcosa di grande, per un cambiamento. È in collera con tutte le persone che continuano a chiamare il papà "infame". Per lei ha fatto quello che si doveva: non uccidere un innocente e collaborare con la giustizia. L. sa che esponendosi, con quest’intervista, potrà essere vista con occhi diversi da chi incrocia nel palazzo nel quale vive, che non immaginano minimamente la loro storia.

 

"Non m’importa del giudizio. Tanto sono rimasta sola, io con i miei figli. Voglio raccontare la nostra vita perché è quello che avrebbe voluto fare mio marito se non fosse morto. Mi sento come un pacco. Lo stato ci ha mollati dopo aver avuto quello che serviva alle indagini. Collaborare con la giustizia è sacrosanto, ma ha un costo molto alto".

 

L. si asciuga le lacrime alla fermata di un pullman. Prendiamo un notturno, ha l’aria condizionata. Un modo per far passare il caldo d’estate e far scendere la tristezza della vita così com’è.

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