il parallelismo
Le dimissioni di Costa per un grottesco errore dei giudici dicono molto anche dell'Italia
L’errore nell’intercettazione sul premier portoghese è grave. Ma lo è anche la debolezza della politica
In Italia si è subito evocato il caso Tortora alla notizia, confermata domenica dalla magistratura portoghese, che l’intercettazione che aveva portato a una clamorosa perquisizione della casa e degli uffici, e alle conseguenti dimissioni, del premier António Costa, era un terribile, o assurdo, o grottesco errore: un caso di quasi omonimia, una sciatta trascrizione. Si è evocato Tortora, dimenticando che il suo caso non fu solo un errore giudiziario, fu un osceno caso di linciaggio mediatico. Ma a parte il non piccolo dettaglio, il caso di Costa indica altre magagne.
Riassunto, l’ormai ex premier socialista portoghese si è dimesso il 7 novembre quando, a seguito di una intercettazione inerente a un’inchiesta su ipotesi corruttive, la polizia aveva effettuato le perquisizioni. António Costa, pur dichiarandosi del tutto estraneo, si era detto “fiducioso nel funzionamento della giustizia”. In base alle regole portoghesi, si andrà in primavera a nuove elezioni. Peccato che l’ufficio della procura di Lisbona abbia ammesso un clamoroso errore: il nome finito nella registrazione non sarebbe quello del premier, ma quello del ministro dello Sviluppo economico, quasi omonimo: António Costa Silva. La sciatteria della trascrizione ha provocato il disastro. Il fatto sarebbe emerso durante l’interrogatorio di un imputato, che secondo il suo avvocato ha chiarito l’equivoco. “Essere sospettati penalmente è incompatibile con l’esercizio della carica di primo ministro”, aveva detto Costa, e ovviamente l’assoluto rispetto della legge e del ruolo istituzionale va a suo totale onore. Ma rimane il senso sgradevole di una forzatura, di un automatismo disfunzionale e rivedibile, nel rapporto tra politica e giustizia. Forse con meno frequenza che nel nostro paese, i casi di inchieste che travolgono politici per errore o per teoremi inquisitori spesso poi smentiti non sono infrequenti. L’inchiesta a strascico sul presunto “Qatar gate” ne è un pessimo esempio recente.
Evocano il caso Tortora, ma nel paese degli schiavettoni, poi deturpato dalla legge dalle conseguenze incongrue della legge Severino, andrebbe purtroppo evocato il ben più grave caso Barbacetto. Il giustizialista emerito del Fatto quotidiano è riuscito a scrivere, su X: “La differenza tra l’Italia e i paesi civili? In Portogallo si dimette un primo ministro accusato di corruzione per errore. In Italia non si dimette mai nessuno” (segue divagazione fuori contesto su una delle sue ossessioni giudiziarie). Dunque nei “paesi civili”, secondo lo standard di Barbacetto che forse non passerebbe il vaglio del forum dei Diritti umani dell’Onu a guida iraniana, sarebbero civili perché lì si possono far cadere i governi, legittimi e immacolati, per errore. Questa è invece una grave inciviltà, a cui ci siamo fin troppo abituati. E che non è estranea a un altro aspetto: Costa si è dimesso per tutelare la sua persona e le istituzioni; ma, sapendo di essere innocente, avrebbe potuto (o dovuto) restare al suo posto, in attesa che la magistratura chiarisse le cose, o si schiarisse le idee. Nel suo gesto, c’è il riflesso di un inchino timido alla supremazia del potere giudiziario sul politico, che le costituzioni democratiche mettono appositamente al riparo da sbagli o peggio dei giudici. Il vero scandalo portoghese non è tanto, in fondo, l’errore dei magistrati (presto rettificato, in questo il Portogallo è davvero più civile) ma che Costa abbia rinunciato a difendere la sua autonomia e il suo ruolo. Costa si è dimesso perché nel mondo governato dal panpenalismo, il potere della gogna giudiziaria è superiore al diritto di difendersi. Come ha scritto Stefano Esposito, ex senatore del Pd intercettato 500 volte senza alcuna autorizzazione, “la storia portoghese dimostra che non solo in Italia manca una solida e radicata cultura garantista. E poi lo strapotere dei pm produce danni irreparabili alla democrazia”. Infine. Si dice Tortora, e a parte che andrebbe notato che per lui la falsa accusa fu una vera calunnia, e non una trascrizione sbagliata, va detto che in Italia la questione resta grave. Il caso più tristemente celebre dei nostri errori è quello di Angelo Massaro, 21 anni di carcere per omicidio e sequestro di persona, vittima innocente di un’errata comprensione di un’intercettazione. Sappiamo che non è l’unico, ma che importa, non siamo un “paese civile”?