la risposta penale non basta più
Non serve una “bulimia repressiva” contro la violenza sulle donne
A dieci anni dall'introduzione della prima legge sui femminicidi le donne continuano a morire. Da allora sono state inasprite sanzioni e introdotte nuove fattispecie, ma la prevenzione è rimasta al palo
Le morti di Giulia Cecchettin e delle altre 102 donne uccise dall’inizio dell’anno raccontano in maniera drammatica come le leggi che nascono sull’onda di un allarme emotivo non bastino per affrontare i problemi. Sono passati dieci anni da quando l’Italia ha recepito nella sua legislazione la convenzione di Istanbul che riconosce per la prima volta una specificità nella violenza di genere. Era il 2013, a capo del governo c’era Enrico Letta e la parola “femminicidio” era entrata nel vocabolario da qualche anno. La legge 199 – conosciuta appunto come legge sui femminicidi – ha incrementato le risposte sanzionatorie di fattispecie già esistenti. Da allora ci sono molte più tutele per le donne che subiscono soprusi e maltrattamenti, anche grazie al successivo Codice rosso, approvato nel 2019 e potenziato più volte, che ha introdotto nuove fattispecie di reato. Ma il numero delle donne uccise in quanto donne ha mantenuto un trend costante secondo i dati del ministero dell’Interno.
“L’autore di violenze sulle donne in linea di principio appare refrattario alla minaccia della pena, perché agisce in modo irrazionale: chi commette questi crimini non fa una valutazione costi-benefici”, spiega al Foglio Tiziana Vitarelli, docente di Diritto penale all’Università di Messina e studiosa della materia. Vitarelli è convinta che nell’ambito della violenza contro le donne ci sia una sorta di “bulimia repressiva” da parte del legislatore che tralascia un altro aspetto invece prioritario: quello della prevenzione. Il problema, spiega, è che le nuove fattispecie e le risposte sanzionatorie sono dei palliativi che non hanno una capacità deterrente. “In presenza di problemi sociali causati da fenomeni criminali sistemici che, soprattutto attraverso la trasposizione mediatica, inducono allarme sociale, il legislatore insiste sull’opzione repressiva e continua a ignorare gli strumenti di prevenzione extrapenale”, ha scritto Vitarelli in un paper di qualche anno fa pubblicato sulla rivista di Diritto penale contemporaneo. D’altra parte, l’agenda penale scandita sui temi dei talk show ha evidentemente la funzione un tornaconto politico per dare risposte immediate. “La prevenzione è politicamente meno remunerativa e di lenta attuazione – spiega ancora Vitarelli – ma è innegabile che sarebbe più efficace e meno costosa come argine al fenomeno, oltre che più coerente con la sua caratterizzazione marcatamente culturale”.
Eppure in Parlamento è già pronta una nuova legge che mercoledì arriverà in Senato per la sua approvazione definitiva. Le norme che contiene sono state approvate a giugno in un Consiglio dei ministri e riprendono il testo su cui aveva lavorato l’allora ministra Elena Bonetti nel corso del governo Draghi. Lo scopo – da raggiungere a invarianza finanziaria – è rendere più efficace il Codice rosso, con un rafforzamento degli strumenti di prevenzione come l’ammonimento, il braccialetto elettronico e il divieto di avvicinamento, anche per i cosiddetti “reati spia” come lo stalking. Sono previste anche nuove regole per gli arresti in flagranza differita e per favorire la formazione di magistrati e polizia giudiziaria. Ma ha ancora senso stringere le maglie del Codice rosso? “Il fatto che i dati sui femminicidi non siano migliorati impone un rafforzamento delle norme, non certo di arrendersi”, dice al Foglio Elena Bonetti, spiegando che questo nuovo disegno di legge “colma un vulnus, introducendo strumenti che serviranno ad aumentare il livello di vigilanza e protezione della donna”. Ancora una volta. “Ma sappiamo che non è abbastanza: il fenomeno è talmente più ampio da richiedere un costante e incessante percorso operativo da parte di tutta la società per la promozione del pieno rispetto delle donne nelle scuole e nelle università”.
Per una legge pronta a essere approvata, eccone allora un’altra pronta a essere proposta. L’idea l’ha lanciata la segretaria del Partito democratico Elly Schlein, che all’indomani della morte di Giulia Cecchettin si è rivolta a tutte le forze politiche per chiedere una legge che introduca l’educazione al rispetto e all’affettività in tutte le scuole d’Italia. Ma anche in questo caso il rischio è dare una risposta d’urgenza per contenere il clamore mediatico senza andare alla radice del problema. “Per insegnare il rispetto e sensibilizzare i giovanissimi non occorre una legge che lo preveda. Per introdurre l’ora di educazione sentimentale probabilmente occorre. Ma non basta, dal momento che la famiglia, nell’educazione, ha un peso maggiore”, dice ancora Vitarelli. Per il momento il governo ha detto di volere avviare una campagna di sensibilizzazione nelle scuole. E tanto basterebbe per iniziare ad affrontare il tema con i ragazzi senza ricorrere in maniera frettolosa a un’altra legge.