La riflessione
La convinzione sbagliatissima e pericolosa di far rispettare la legge, anziché limitarsi ad applicarla
Il magistrato non è nè un carabiniere, nè un vigile urbano. Spetta a loro, non al potere giudiziario, assicurare il rispetto delle leggi
Non sarà, forse, “il” problema dell’amministrazione della giustizia, visto che questo comparto della cosa pubblica ne ha tanti e tutti molto gravi: ma certamente è una questione molto rilevante, che in modo inavvertito ha contaminato in profondità il senso comune della giustizia e il rapporto tra la giurisdizione e la società, tra la magistratura e i cittadini. Si tratta dell’idea, energicamente propugnata dai ranghi più bassi a quelli più alti del potere giudiziario militante, secondo cui il magistrato avrebbe il compito di “far rispettare la legge”. L’idea, cioè, che il magistrato sia il guardiano esecutivo della legalità, preposto dunque a tenere in ordine il consorzio sociale e a controllare che non sgarri. Spesso questa convinzione sbagliatissima e pericolosa è coltivata in buona fede. Tanti, tra quelli che la fanno propria e la propugnano, e che vi si ispirano nel proprio lavoro, credono sul serio che il compito della magistratura sia quello: tenere in ordine la società, appunto, “facendo rispettare la legge”. Ma non è quello il compito della magistratura, la quale deve applicare la legge, non farla rispettare (che è cosa diversissima). A far rispettare la legge è deputato il carabiniere, il vigile urbano, non il magistrato.
Quel pregiudizio culturale, quella malintesa funzione dell’azione giudiziaria fruttificano in storture non soltanto nell’inesausta attività di interferenza cui si abbandona la magistratura corporata, intralciando in modo violento e sistematico l’azione del potere legislativo e di governo: ancora, e forse più gravemente, quel vizio di origine, quel concetto pervertito della funzione giudiziaria si sviluppa nella maestosità delle indagini e dei processi moralizzanti e “rivoluzionari”, per intendersi quelli che sulla scorta del rastrellamento di trecentocinquanta persone conducono a una raffica di assoluzioni. Il fisiologico “prezzo”, secondo l’inquirente rivoluzionario, che occorre pagare se davvero si vuole rimuovere la montagna di merda che seppellisce la società malformata e la politica corrotta .Non basta. In omaggio al presunto dovere giudiziario di “far rispettare la legge”, infatti, ci si abbandona molto spesso al costume di contravvenirvi, persino rivendicando il fine salutare di quell’insubordinazione. Vedi il capannello togato che trent’anni fa, davanti a una foresta di microfoni e telecamere, denunciava i provvedimenti del governo salva-ladri mentre la folla si adunava sotto ai balconi del Palazzo di Giustizia chiedendo a quei magistrati di far sognare il popolo onesto. Vedi, trent’anni dopo, i verbali di indagine finiti nel giro di veline tra il retro di una procura della Repubblica e la tromba delle scale del Consiglio superiore della magistratura. Tutto, ovviamente, in attuazione del progetto finalistico di riordino sociale che fa da panca alle ambizioni del magistrato integerrimo, quando non eroe, insomma il funzionario magari un po’ disinibito ma dopotutto encomiabile visto che fa tutto ciò a fin di bene.
Viene da quell’idea perversa l’impazzimento ormai pluridecennale che ha fatto dello Stato di diritto di questo paese una specie di desolante simulacro. Dall’idea che la magistratura non debba più maneggiare e applicare la legge, che è un “fatto” uguale per tutti e che ha valore perché obbliga tutti, e debba semmai dispensare giustizia, che invece è un “valore” mutevole secondo il criterio di ciascuno. Dispensare giustizia “facendo rispettare la legge”, e cioè trasformandosi in poliziotto, in secondino: in governo.
L'editoriale del direttore