invasioni di campo
“Il ddl sicurezza? Degno di Mussolini, Orbàn e Franco”. Le sparate del pm Vanorio
Per il magistrato di Napoli la riforma in materia di sicurezza, in discussione in Parlamento, prevede "norme tecnicamente fasciste". Alla faccia del riserbo e dell'equilibrio richiesti alle toghe. Per la politica, il Csm e l'Anm tutto ok?
"Una riforma che prevede norme tecnicamente fasciste”. Con queste parole il sostituto procuratore di Napoli, Fabrizio Vanorio, storico esponente di Magistratura democratica, ha definito il disegno di legge in materia di sicurezza, in discussione in Parlamento, durante un seminario tenutosi mercoledì scorso all’Università Federico II di Napoli. Un’affermazione forte, che sembra andare ben oltre la legittima critica di stampo giuridico delle norme contenute in un disegno di legge.
E se qualcuno avesse dubbi sull’intenzione di Vanorio di qualificare come fascista la riforma ora in esame in Parlamento, ci ha pensato lo stesso pm a spazzare via ogni dubbio, rilasciando subito dopo un’intervista al sito del Fatto quotidiano con dichiarazioni persino più esplicite: “Queste norme sono tecnicamente fasciste perché fanno rivivere in parte quelle del codice Rocco. Se questo disegno di legge passasse, si tornerebbe a un diritto penale autoritario simile a quello degli anni di Mussolini, o per fare un esempio più moderno, a quello dell’Ungheria di Orbàn. E infine inasprire le pene contro gli straccioni e i mendicanti ricorda ‘la ley de vagos y maleantes’ inasprita in Spagna da Francisco Franco”. Ironizzando, nello scenario immaginato da Vanorio sembrano mancare soltanto le cavallette.
L’intervista è passata quasi inosservata, anche perché pubblicata solo sul sito del quotidiano diretto da Travaglio. Il motivo è forse da rintracciare nello scontro avuto lo scorso settembre proprio tra Vanorio e Travaglio sulle pagine del Fatto quotidiano. Il pm napoletano aveva inviato una lettera criticando la definizione data da Travaglio a coloro che al Csm non avevano votato per la nomina di Nicola Gratteri a capo della procura di Napoli (“vittime di un disastro mentale e culturale prima ancora che politico”). Il direttore del Fatto aveva replicato alla lettera rincarando la dose, prendendosela col disastro anche “morale” dell’“intera sinistra politica e giudiziaria che si è dissociata dalla nomina di Gratteri”, sinistra giudiziaria alla quale da tempo appartiene Vanorio.
Scazzottata a parte, a sorprendere sono le dichiarazioni rilasciate da Vanorio. Nessuno mette in dubbio il legittimo diritto di critica di un magistrato (in questo caso sulle nuove norme riguardanti la lotta allo sfruttamento dei minori, l’inasprimento delle pene per chi commette violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, oppure per chi imbratta beni mobili o immobili in uso alle forze di polizia). Su queste pagine abbiamo scritto come le misure varate dal governo si riducano, ancora una volta, a una sfilza di norme che introducono reati e aumentano le pene già esistenti. Una cosa, tuttavia, è criticare una riforma. Un’altra è esondare, nelle vesti di funzionario dello stato, dal proprio ambito di competenza. In nessun paese civile del mondo, infatti, un magistrato si permetterebbe di definire “fascista” una legge in discussione in Parlamento e di evocare, tra l’altro in una sorta di fritto misto, le figure di Mussolini, Orbàn e Franco.
La legge che disciplina gli illeciti disciplinari delle toghe stabilisce al primo articolo che “il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio”. Riserbo ed equilibrio. Il codice etico dell’Associazione nazionale magistrati prevede che “fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni e interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa”. Equilibrio, dignità e misura.
Ci si aspetterebbe dalla politica, non solo di centrodestra, una reazione a queste frasi. Ma soprattutto ci si aspetterebbe un segnale di vita dal Consiglio superiore della magistratura e dall’Anm, sempre che le norme stabilite per disciplinare il comportamento dei magistrati abbiano ancora un senso.