Il caso

Davigo attacca i giudici da Fedez mentre si prepara per il processo d'appello

Luciano Capone

In vista dell'udienza del 29 gennaio l'ex pm di Mani pulite, ospite del rapper, attacca il tribunale che lo ha condannato: “A Brescia non sempre le cose le capiscono”. Nel frattempo deposita un'integrazione al ricorso, tutta centrata sul caso Morra, che però appare un po' contraddittoria

Il 29 gennaio inizierà il processo d’appello, ma Piercamillo Davigo ha già avviato la sua strategia difensiva per ribaltare la condanna del tribunale di Brescia a un anno e tre mesi per rivelazione del segreto d’ufficio nella vicenda dei verbali di Amara. Ha cominciato da Fedez: nell’intervista al rapper, diventata celebre per la scioccante affermazione sugli indagati che si suicidano (“Certo che dispiace, soprattutto perché si perde una fonte”) da cui ha preso le distanze anche l’Anm, l’ex pm di Mani pulite ha attaccato il tribunale che lo ha giudicato: “Sono stato condannato perché a Brescia non sempre le cose le capiscono”. Davigo ha poi dato un colpo a Roberto Spanò, il presidente del collegio del tribunale di Brescia, che l’ha condannato: “Ha più volte pubblicamente dichiarato che fino a questo processo non sapeva cosa fosse il Comitato di presidenza del Csm. Non è una cosa di cui ti devi vantare!”. E, infine, l’ex magistrato ha fatto capire che è stato condannato perché è un pesce grosso: “Sono un luccio che dà lustro”.

 

Ma parallelamente alla critica pubblica della sentenza, a poche settimane dall’udienza del 29 gennaio, Davigo ha fatto un altro passo. Pochi giorni prima della partecipazione al podcast di Fedez, il 6 dicembre, il team legale dell’ex pm – che dopo la condanna in primo grado è stato potenziato con Davide Steccanella, l’avvocato degli “indifendibili” Cesare Battisti e Renato Vallanzascaha depositato un’integrazione al ricorso di appello: un documento di 44 pagine, molto più lungo del ricorso originario di 30 pagine depositato a luglio presso la Corte d’appello di Brescia. Questo addendum è interamente focalizzato su una sola delle numerose fughe di notizie per cui è stato condannato: Nicola Morra.

 

Il ricorso di luglio, infatti, si occupava principalmente delle divulgazioni di Davigo nei confronti di altri consiglieri del Csm. La linea difensiva si basava molto sulla sentenza che ha assolto Paolo Storari, ovvero il pm che, preoccupato per l’inerzia della procura di Milano, consegnò a Davigo i verbali secretati per dare impulso all’inchiesta. Storari è stato assolto in via definitiva perché è incorso “in un errore su una norma extrapenale”: il suo è stato un errore scusabile in quanto era “convinto di interloquire con un soggetto legittimato a ricevere quelle informazioni”. In sostanza, Storari è stato indotto in errore da Davigo che lo aveva rassicurato sulla liceità di un passaggio di carte informale e fuori dalle regole. La difesa di Davigo si fa forte della sentenza per dire: se Storari che ha divulgato fuori dalle procedure verbali secretati al consigliere del Csm Davigo è stato assolto, allora anche Davigo va assolto per aver rivelato quelle stesse notizie ad altri consiglieri del Csm.

 

Restava fuori, però, il caso di Nicola Morra che non era un membro del Csm bensì un politico, a cui l’ex pm di Mani pulite rivelò che il suo collega-nemico Sebastiano Ardita, anch’egli membro del Csm, era indicato nei verbali di una procura del nord come appartenente alla massoneria. La vicenda, nelle 30 pagine di luglio, veniva liquidata in poche righe parlando di una “generica comunicazione”. Si trattava del punto più fragile della difesa. Così, dopo cinque mesi, Davigo ha depositato un’integrazione di 44 pagine sul caso Morra.

 

L’allora presidente della commissione Antimafia era andato da Davigo per tentare di ricucire il rapporto con il suo ex amico Ardita. Fu così che Davigo, dopo aver portato il senatore del M5s fuori dal suo ufficio dopo e avergli intimato di tenere il segreto, gli rivelò “nella tromba delle scale” la maldicenza (rivelatasi falsa) contenuta nelle deposizioni di Amara: ecco perché bisognava stare alla larga da un tipo come Ardita. La difesa di Davigo è che lui non ha rivelato informazioni coperte da segreto e che, in ogni caso, si è trattato di “confidenze” del tutto “insignificanti”. Perché se pure Morra avesse rivelato l’informazione secretata ad Ardita, con cui Davigo sapeva che il senatore del M5s era in buoni rapporti, Ardita non avrebbe potuto fare “assolutamente nulla”.

 

La linea difensiva è originale, perché in contraddizione con il comportamento dell’imputato: Davigo pensa che Morra sia stato mandato da Ardita, eppure gli rivela che Ardita è tacciato di essere massone in un verbale; Davigo dice a Morra di mantenere il massimo riserbo, ma la notizia che gli rivela è “insignificante”; Davigo ha agito senza seguire le procedure del Csm per non far sapere nulla ad Ardita, ma poi spiffera tutto a chi presume essere un emissario di Ardita.

 

Per ora Davigo ha convinto Fedez, che nel podcast annuiva alla sua arringa difensiva. Bisognerà vedere se riuscirà a convincere anche la Corte d’appello di Brescia dove, come lui sostiene, “non sempre le cose le capiscono”.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali