La Consulta dà ragione al Senato e torto alla procura sul caso Esposito. Ecco perché è un'ottima notizia
Dopo la sentenza sul caso Renzi di luglio scorso, la Corte costituzionale ribadisce che non si intercettano i parlamentari senza passare da una autorizzazione delle Camere. Un freno allo strapotere delle toghe
La Corte costituzionale dà ragione al Senato e torto alla procura di Torino nel caso Esposito. La Consulta ha accolto il conflitto di attribuzione tra poteri dello stato sollevato da Palazzo Madama, "in relazione all’attività di intercettazione che ha coinvolto, nell’ambito di plurime indagini, Stefano Esposito, Senatore nella XVII legislatura", si legge nel comunicato diffuso dalla Corte.
In altre parole la Consulta dice che non si intercettano i parlamentari senza passare da una autorizzazione delle Camere.
A luglio scorso, in una sentenza simile che riguardava a Matteo Renzi, la Corte costituzionale aveva detto che la procura di Firenze non poteva acquisire senza preventiva autorizzazione del Senato messaggi di posta elettronica del parlamentare.
Il caso:
"Più separazione dei poteri, meno pieni poteri ai pm. Ottima notizia", scrive il direttore Claudio Cerasa su Twitter/X. La sentenza della Consulta sul caso Espositoè in effetti un freno allo strapotere delle toghe, come scrivevamo la scorsa settimana sul Foglio.
"Con la sentenza n. 227 del 2023, depositata oggi, è stato dichiarato che non spettava alle autorità giudiziarie che hanno sottoposto ad indagine e, successivamente, rinviato a giudizio Stefano Esposito, disporre, effettuare e utilizzare intercettazioni rivolte nei confronti di un terzo imputato, ma in realtà univocamente preordinate ad accedere alla sfera di comunicazione del parlamentare, senza aver mai richiesto alcuna autorizzazione al Senato della Repubblica", scrive la Consulta. "Secondo la sentenza, il carattere 'mirato' dell’attività di indagine deve essere ricavato dalla 'decisiva circostanza' per cui, nei confronti del parlamentare, emergono 'specifici indizi di reità che si traducono nella richiesta di approfondimenti investigativi'. In particolare, la Corte costituzionale ha precisato che indici quali l’abitualità dei rapporti tra il parlamentare e il terzo intercettato, il numero delle conversazioni e la loro prevedibilità, nonché la loro proiezione nel tempo, possono non essere da soli sufficienti a qualificare il parlamentare come bersaglio effettivo delle indagini. Ad assumere un peso determinante in tal senso è, piuttosto, l’effettivo e sostanziale coinvolgimento del parlamentare tra gli obiettivi delle indagini".
La consulta aggiunge che "è stata altresì accertata l’illegittimità dell’acquisizione agli atti di indagine, in data 19 marzo 2018, dei messaggi WhatsApp, indirizzati a (o prevenienti da) Stefano Esposito allorquando egli ricopriva ancora il mandato parlamentare, estratti dalla copia forense delle comunicazioni contenute nel dispositivo di telefonia mobile di altro indagato: messaggi per i quali sarebbe stata necessaria, ai sensi dell’art. 68, terzo comma, Cost. e dell’art. 4 della menzionata legge 140/2003, una preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza, costituendo essi corrispondenza, il cui sequestro nei confronti di un parlamentare è, appunto, condizionato alla previa autorizzazione".
Si tratta di "un'importante sentenza a difesa del Parlamento e dell'equilibrio tra i poteri", scrive su Twitter/X Stefano Ceccanti, ordinario di Diritto Pubblico Comparato alla Sapienza e ex capogruppo Pd nella Commissione Affari Costituzionali.