La sentenza
La ragione di Esposito. La Corte boccia gli abusi dei magistrati sulla politica
Prima nel caso Renzi, ora con il caso Esposito, la Consulta ribadisce che non si intercettano i parlamentari senza permesso. Due pietre miliari contro la prevaricazione della magistratura
Per fortuna abbiamo la Corte costituzionale più bella del mondo, che tiene saldamente il timone della separazione dei poteri su cui poggiano con sicurezza le nostre libertà. Senza la Corte costituzionale più bella del mondo i nostri politici, che rappresentano democraticamente la nostra libertà, sarebbero in balia dei pretesi pieni poteri della magistratura. E persino dei mezzi poteri arroganti di certa stampa illiberale sempre pronta ad applaudire le scelte più spericolate di alcune procure. Invece la Corte costituzionale più bella del mondo ha dato ragione al Senato e torto alla procura di Torino nel conflitto di attribuzione sul caso dell’ex senatore del Pd Stefano Esposito, intercettato illegalmente per 500 volte mentre era in carica e rinviato a giudizio sulla base di intercettazioni che secondo la Costituzione non dovevano essere effettuate. Se questa sentenza ve ne ricorda un’altra, quella con cui la la Consulta aveva dato ragione a Matteo Renzi, stabilendo che la procura di Firenze non poteva acquisire mail e whatsapp dell’allora senatore senza preventiva autorizzazione del Senato, avete buon a memoria. E due sentenze analoghe ribadiscono con forza un principio.
La grave vicenda, un vero sopruso giudiziario, che ha riguardato l’ex senatore dem Stefano Esposito è ben nota ai lettori del Foglio, dove è stata più volte e con precisione denunciata. Da senatore, Esposito è stato intercettato oltre 500 volte tra il 2013 e il 2018 senza alcuna autorizzazione del Parlamento, quindi in completa violazione della Costituzione. Esposito era finito nella rete a strascico degli ascolti a Torino in seguito a un’inchiesta che riguardava l’imprenditore dello spettacolo Giulio Muttoni (“bigliettopoli”, titolarono i giornali con la consueta sciatteria), amico personale e di lunga data del senatore. L’art. 68 della Costituzione stabilisce che i membri del Parlamento non possono essere sottoposti a intercettazioni senza la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza, ma un errore si può ovviamente ammettere. La vicenda diventa inaccettabile quando si scopre che polizia giudiziaria e pm sapevano perfettamente che Esposito era un parlamentare, dunque le intercettazioni andavano sospese e soprattutto non dovevano essere utilizzate. Invece si andò avanti per tre anni, dal 2015 al 2018, e sulla base di quei rilievi illegittimi Esposito fu indagato per turbativa d’asta, corruzione e traffico di influenze illecite. Ieri la Consulta ha dato ragione alla giunta per le immunità di Palazzo Madama “in relazione all’attività di intercettazione che ha coinvolto, nell’ambito di plurime indagini, Stefano Esposito, Senatore nella XVII legislatura”. Detto in breve: non si intercettano i parlamentari senza passare da una autorizzazione delle Camere.
I lettori del Foglio la vicenda la conoscono bene, non così tutti gli altri, a giudicare dalla scarsa attenzione dedicata a un caso così decisivo per ristabilire l’indipendenza invioilabile della politica. Anche la notizia clamorosa della sentenza – la Cassazione ha ribadito con la massima chiarezza le prerogative dei diversi poteri, certificando quelli del Parlamento e censurando con nettezza un abuso compiuto dalla magistratura – ha fatto fatica a trovare spazio nelle homepage. Perché il pregiudizio contro la politica e il populismo giudiziario sono così radicati che anche l’evidente abuso viene automaticamente giustificato. È esattamente il caso di Renzi nel processo Open. Lo scorso luglio la Corte costituzionale aveva sentenziato nello stesso modo negando legittimità all’azione della procura di Firenze che aveva acquisito corrispondenza in modo illecito. Renzi commentò: “Avevo fortemente voluto che la vicenda finisse in Corte, non per il processo ma per un punto di principio e di diritto. Oggi è solo il giorno del trionfo del diritto”.
A distanza di pochi mesi, due sentenze della Consulta ribadiscono lo stesso principio costituzionale, e questo suona come un rafforzativo contro tutte le tendenze incarnate da decenni da settori della magistratura, sostenuti dalla stampa e da interessi politici, in base alle quali la prevaricazione della magistratura, anche se riconosciuta, è in sostanza legittimata da un interesse di controllo superiore. Quale interesse? “Mi hanno distrutto la vita violando leggi, Costituzione e tutto il possibile. Magra soddisfazione”, è stato il primo commento di Stefano Esposito. Un’amarezza più comprensibile, ma due sentenze fanno sperare che abusi simili non accadano più.