il saggio
Calabresi uguale 'ndranghetisti. Ecco l'equazione del razzismo giudiziario
Delle intercettazioni travisate. Il caso di Marco Sorbara, caduto nella trappola di un’indagine apodittica quanto un teorema, spietata quanto un pregiudizio. Per smontarla gli ci vorranno quattro anni, tre processi e sette mesi di carcere
Ventisei scarcerato domani e assolto. Venticinque assolto. Ventiquattro buone probabilità di esserlo. Ventitré improbabile. Ventidue non c’è neanche da pensarci. Ma poi, questo è un mandarino grosso, si vede dalla buccia che avrà dodici, forse tredici spicchi. Non come quello di ieri, che ne aveva undici, e però i noccioli erano ventiquattro, quindi niente male. Ma tredici spicchi fanno almeno venticinque noccioli. Assolto, ma non subito. E chissenefrega. Se pure dovessi restare ancora un mese o due in quest’inferno, so come difendermi, io. Non mi faranno impazzire, perché tengo allenata la mente. Dov’ero rimasto? Diciotto, diciannove, venti, ventuno, ventidue, ventitré, ventiquattro, venticinque e ventisei! Bingo, ventisei. E ventiquattro ieri che era giovedì, e prima venticinque e ancora ventiquattro, solo lunedì ne ho contati ventidue, che sono rimasto male tutto il giorno, ma se domani e domenica ne trovo venticinque, fanno ventiquattro virgola due. Assolto!
Mentre calcola la sua singolare media settimanale, Marco Sorbara sta ritto in piedi in una cella di quattro passi per due, con un letto in ferro cementato sul pavimento, un materassino senza cuscino, due coperte militari ma nessun lenzuolo, un cesso diviso da una porta semidivelta, un termosifone freddo, come l’acqua che sgorga dal lavandino il ventitré di un gennaio speciale, quello del 2019, che i veterani del carcere vecchio di Biella ricordano come uno dei più freddi degli ultimi due decenni. Sfida la paura di suicidarsi, scommettendo sui semi dei mandarini che corredano il vassoio del pasto, altrimenti lasciato intonso. Tra le mani compulsa l’ordinanza che lo indica come un complice della ‘Ndrangheta valdostana, ne sfoglia nervosamente le ottocentosettantadue pagine, ma non riesce a leggerle perché ha perduto la connessione dei sensi con la mente. Guarda ma non vede, urla ma non ascolta la sua voce. Sorbara, stia zitto, gli intima un secondìno.
E’ caduto nella trappola del travisamento. Le intercettazioni che lo riguardano sono state impacchettate in un’investigazione apodittica quanto un teorema, ambigua quanto un sospetto di polizia, spietata quanto un pregiudizio. Per smontarla gli ci vorranno quattro anni, tre processi, ma soprattutto sette mesi di carcere e due anni e mezzo di arresti domiciliari. Siamo appena all’inizio di una storia che non diresti appartenere alla civiltà.
Lo buttano giù dal letto, come fanno con tutti e, di più, con i politici. Alle tre e quindici di un giorno qualunque, che diventerà il giorno più tragico della vita, alla vigilia di un consiglio regionale dove il neoeletto Marco Sorbara dovrebbe presentare un’importante delibera sull’educazione nelle scuole. Svegliano l’intera palazzina di via Amato Berthet al numero otto, nel quartiere Dora, dove Aosta mostra nell’architettura delle cooperative la sua incompiuta integrazione. Il pensiero della madre, Iolanda, che vive con lui, corre agli altri due figli. Sandro è avvocato, va e viene dal confine. Cosimo fa il croupier a Saint Vincent, e ha già avuto un incidente. Ma dalla finestra baluginano le luci delle sirene dei carabinieri e basta affacciarsi per vedere nel piazzale uno spiegamento di auto e militari che non può raccontare una tragedia, ma piuttosto l’arresto di un mafioso. Siamo qui per lei, Sorbara, dobbiamo perquisire la casa e portarla via, ci dia subito i suoi cellulari. Eccolo. No, anche l’altro, sappiamo che ne ha due. Ho due schede, ma un solo cellulare. E quando lo dici la casa è già a soqquadro, uomini in divisa aprono cassetti e armadi, rovistano dovunque, mentre tua madre prende a urlare senza freni, aprendo una variabile imprevista che trova impreparati i carabinieri. L’effetto è un’accelerazione che trasforma una notifica di un ordine di cattura in un blitz. Sorbara, lei non può avvicinarsi a sua madre. E ti sollevano di peso depositandoti su una sedia della cucina. Sei già detenuto in casa tua, mentre ti portano in cantina e in garage, tenendoti per le braccia da entrambi i lati, frugano nella tua auto, perché qualche prova della tua sudditanza alla mafia dovrà pure spuntare. Un’ora dopo sei nel Conseil de la Vallée, così chiamano il consiglio regionale da queste parti, abbrancato ancora da due marcantoni che ti respirano addosso, mentre gli altri squadernano il tuo ufficio portando via tutte le carte che trovano. Hai dato o no posti di lavoro e appalti alla ‘ndrangheta? Le prove devono stare qui, anche se loro le raccolgono alla rinfusa come farebbe un traslocatore maldestro, chiamato a svuotare un’abitazione dopo la morte del proprietario. Perché la tua morte civile è già avvenuta, anche se ancora non lo sai, anche se ancora la tua mente vaga confusa aggrappandosi alla speranza di un equivoco.
Vorresti rassicurazioni alla paura che ti assedia e scopri che il tuo legale ne ha più di te. Paura che tu possa non farcela a superare il trauma e suicidarti. L’esperienza gli ha insegnato che gli innocenti non hanno, di fronte al tormento del carcere, più scorza dei colpevoli. 45 giorni in isolamento, la prova più severa
In caserma la speranza cede alla consapevolezza che sei, tutto intero, dentro un incubo. Se, dopo le foto e le impronte digitali, fai ancora finta di non capire, e gli chiedi di tornare a casa, quelli ti gelano: Sorbara, l’aspetta il carcere. Questa è l’ordinanza che la riguarda, la prenda. Ma non si può andare in carcere vestito in giacca e cravatta. Hai chiamato tuo fratello, l’avvocato, e fortuna che ce l’hai un avvocato in famiglia, da buttare giù dal letto all’alba. Ma non farà in tempo a portarti un pantalone di ricambio, perché sei stato già caricato su un’auto blindata, seduto sul sedile posteriore con le manette ai polsi, in mezzo a due carabinieri, per il viaggio che non avresti mai immaginato di dover fare. E ora sei nudo nell’infermeria della casa circondariale di Biella, davanti a due agenti che ti osservano da sotto e da sopra, per accertarsi che non nasconda, nelle pieghe del corpo, qualcosa di compromettente. Via cintura, lacci, scarpe, collanina. Ti lasciano la pelle, giusto quella. Si rivesta, Sorbara.
In isolamento passano trentasei ore prima che tu possa incontrare l’avvocato. Trentasei ore senza dormire e senza mangiare, in piedi nello spazio che resta tra il letto e il muro, in piedi per l’illusione di sfuggire a quell’odore di sporco che hai sentito già sull’uscio e al freddo che ti penetra nelle ossa. Quando finalmente vedi Sandro, in un parlatorio angusto sorvegliato da agenti e telecamere, gli metti le mani gonfie dal gelo sulla pancia per riscaldarle, mentre lui t’infila un chewing-gum in bocca. E la menta ti pare un antidoto alla puzza che hai assorbito come una spugna. Lunedì esci, ho letto le carte, non c’è niente, niente di niente, intercettazioni travisate, un teorema, lo smonteremo, vedrai. Ma dimmi che non mollerai. Promettilo. Vorresti rassicurazioni alla paura che ti assedia e scopri che il tuo legale ne ha più di te. Paura che tu possa non farcela a superare il trauma e suicidarti. L’esperienza gli ha insegnato che gli innocenti non hanno, di fronte al tormento del carcere, più scorza dei colpevoli.
Quarantacinque giorni in isolamento sono la più severa prova all’amore per la vita che si possa immaginare. Ne passi trentatré senza vedere tua madre, e arrivi a chiederti se abbia smesso di amarti. Lei, la donna con cui vivi e che, dopo la morte di papà, ha consacrato i suoi giorni ai tuoi. Quando finalmente i vostri occhi s’incrociano, in cinquantacinque minuti di silenzio, si parla con le lagrime. Temevi di doverti presentare al colloquio con le manette. Te l’aveva detto uno che passava vicino alla tua cella, ma non era vero. Uno chi? Forse un agente, o forse era un sogno cattivo. La tua mente vaga tra assurdo e realtà, e non sai da quale delle due dimensioni origini la paura. Ma la nascondi a te stesso, perché ti pare che perfino la paura possa essere intercettata. Negli occhi di tua madre ti sembra di vedere il tuo spavento. Non sai, e lei te lo dirà molto tempo dopo, che l’hanno perquisita, e ha dovuto svestirsi anche lei, prima di entrare nel parlatorio. A settantotto anni non è una bella esperienza. Ma tu sei un mafioso, e i parenti dei mafiosi portano spesso dentro qualcosa di proibito. Il carcere ha già scavato un solco incolmabile tra te e il mondo, e perfino i tuoi affetti più cari stanno ormai in un limbo che congela le parole e le emozioni. Dici: mamma, ti voglio bene. E chiedi: tu me ne vuoi? Perché i piedi del tuo Io vacillano. Ma anche perché non c’è più niente da dire, e da scambiare, tra il tuo universo e quello degli altri. E’ questa l’altra faccia di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di un innocente, letta dal lato oscuro del foglio.
Ti hanno incriminato come complice di un’associazione mafiosa che non è provata. Il processo alla ’ndrangheta che pratica un metodo “non mafioso” era un ossimoro, dietro il quale si celava un processo ai calabresi. Hai perso tutto e l’assoluzione non ti ha restituito che una parte della tua reputazione
Sandro teme di trovarti appeso a un lenzuolo. Non accadrà ma fammi uscire di qui, gli hai detto. Non hai mai percepito il suicidio come liberatorio, per questo la sua tentazione ti ha minacciato per davvero solo in un paio di occasioni. In realtà tu vorresti spegnere i pensieri che affollano la mente e precipitare in una sorta di coma, immune a qualunque emozione, per risvegliarti solo quando tutto sarà finito. Ma quando sarà finito? Leggi le carte, Marco, tuo fratello può difenderti se lo aiuti a capire che cosa facevi per due legislature da assessore ai servizi sociali del Comune d’Aosta, e da consigliere regionale poi, negli ultimi cinque mesi prima dell’arresto. Ma più sfogli le pagine con le intercettazioni che ti riguardano, e più ti accorgi di non essere mai stato padrone della tua vita, se un magistrato può reinterpretarla a suo modo, stravolgendola. E allora la paura torna prepotente su tutto. Paura di addormentarti, perché potrebbero metterti qualcosa di strano nella cella, per accusarti. Paura di accettare una caramella dal detenuto che ti porta il cibo, passandotelo attraverso le grate, nel timore di essere etichettato come amico di un pericoloso criminale. Ma paura anche di rifiutarlo, e di apparire arrogante, tanto da giustificare una rappresaglia o un dispetto. Perfino l’ora d’aria ti appare come un pericolo. La passi attraversando muto il corridoio di venticinque passi per dodici, cementato da ogni lato e aperto solo verso il cielo. Dopo averlo percorso tre o quattro volte, ti mancano le forze. Hai quasi smesso di mangiare.
Cinque volte chiederai la scarcerazione e ti sarà sempre negata, anche l’ultima in cui il pm ha dato parere favorevole. Il processo che ti aspetta pare da subito una montagna ardua da scalare, fin dal primo interrogatorio. E’ il quattro aprile 2019. Ti accusano di concorso esterno in associazione mafiosa, perché sei stato eletto al Consiglio comunale con i voti rastrellati per te dagli uomini della “locale” di ‘ndrangheta, così si definisce in gergo, aperta ad Aosta da un ristoratore incensurato, Antonio Raso. Per i pm eri il suo pupazzo. Lo hai ripagato del favore elettorale informandolo di quanto accadeva all’interno della giunta comunale, trovando lavoro alle persone da lui segnalate, e risolvendo conflitti tra la comunità di migranti calabresi, di cui siete entrambi parte, e le istituzioni.
E’ il tuo mondo raccontato al rovescio. Perché invano provi a spiegare che Raso lo conosci da sempre, che avete in comune il piccolo paese aspromontano di San Giorgio Morgeto, dove lui è nato, e da cui tuo padre è partito negli anni cinquanta insieme a settemila calabresi, giunti nei decenni in Val d’Aosta a costituire un gruppo sociale operoso e integrato. Invano ammetti, a prova di buona fede, che quando ti si rompe l’auto sì, Raso è uno che ti trova chi la ripara, perché gli piace stare in mezzo alle cose, è smargiasso e cura le relazioni come ogni ristoratore che si rispetti. Ma la mafia è un’altra cosa. La mafia è un pregiudizio che qualunque emigrato sente da queste parti come un refolo gelido che gli spira alle spalle. L’inchiesta della procura lo ha trasformato in un uragano, capace di abbattere la vita di una comunità.
Il metodo è quello di assemblare migliaia di intercettazioni, raccolte in un decennio in procedimenti diversi, confermando le une con le altre in una logica congetturale. Lo riconosce con beata spudoratezza l’ordinanza di rinvio a giudizio, mettendo in un certo senso le mani avanti: questo è un processo di sole intercettazioni, scrive il giudice, ma poiché la Cassazione le ammette come mezzi di prova, noi lo istruiamo. Secondo questo modello investigativo e giudiziario due intercettazioni, più un sospetto, più un contesto fanno una prova. Il contesto è l’idea che la ‘Ndrangheta sia presente in Valle D’Aosta da decenni, come proverebbero vaghe testimonianze di pentiti piemontesi e due omicidi di trent’anni prima. Le intercettazioni raccontano, per frammenti, la vita dei migranti calabresi che s’incontrano presso il ristorante pizzeria “La Rotonda”, strutturando le relazioni tipiche di società chiuse, regolate da legami familiari e culturali che fondano un’identità collettiva. Tra queste non mancano personaggi con cognomi coincidenti, per omonimia o per parentela, con quelli di famiglie criminali calabresi, come i Nirta. Lo stesso Antonio Raso, che è considerato il capo dell’associazione mafiosa, è incensurato, ma come ogni buon aspromontano ha, a mille chilometri di distanza, parenti con la fedina penale macchiata.
Quanto al sospetto, terzo e ultimo pilastro di questo paradigma investigativo, è un singolare impasto di logica poliziesca e preconcetto razzista. Poco conta che questa singolare mafia non faccia omicidi, né estorsioni, né minacce, né danneggiamenti. Poiché la sua forza di intimidazione discenderebbe non già da atti di violenza, ma dal suo essere percepita come la succursale valdostana della ‘Ndrangheta madre. In una regione dove sarebbe perfino inutile chiedere il pizzo, perché nessuno accetterebbe di pagarlo, la finalità del clan non sarebbe quella di sottomettere il territorio al suo potere criminale, ma quella di infiltrarsi nelle istituzioni, appoggiando candidati di vari partiti. Di questa mafia, Sorbara, tu sei l’uomo a Palazzo. Vallo a spiegare che non sapevi niente dei loschi traffici che si svolgevano attorno al ristorante, che tu frequentavi da un quarto di secolo. Vallo a spiegare che ignoravi la presunta statura criminale del tuo amico, a cui confidavi i tuoi dubbi amministrativi e le tue vicende private. Lo provano brandelli di intercettazioni raccolti in dieci anni da tre diverse inchieste. Alcune già vagliate e ritenute penalmente irrilevanti, poi ripescate dal mazzo come la prova della tua colpevolezza.
Pochi anni prima hai troncato una relazione con una ragazza calabrese, a cui avevi anche prestato denaro. Nel conflitto tra famiglie che ne è seguito, un cugino della tua ex ha minacciato di morte tuo fratello Cosimo. Hai composto la lite incontrandolo insieme a suo fratello Giuseppe e hai riferito la tua conversazione al tuo amico Raso, a cui hai detto: “li teniamo sotto controllo”. Perché non hai denunciato le minacce alla polizia, invece di chiedere protezione a un mafioso? A chi vorresti far credere che la tua conversazione con Raso era una semplice confidenza?
E che dire dei mobili dismessi dal Comune d’Aosta e da te portati in dono al tuo paese di San Giorgio morgeto? Quando la Lega ti ha accusato in consiglio comunale di aver fregato i tuoi compaesani calabresi, rifilandogli quelle anticaglie, mentre invece destinavi centomila euro al comune senegalese di Kaolach gemellato con Aosta, il tuo amico Raso ha telefonato al sindaco di San Giorgio perché ti ringraziasse ufficialmente. Non vuol dire forse che è il tuo protettore? Fai presto a dire che la mozione della Lega era stata già bocciata dalla tua maggioranza al Comune d’Aosta, che il sindaco di San Giorgio ti aveva ringraziato prima che glielo chiedesse Raso, che quei mobili li hai portati con un furgone affittato a tue spese, tornando al tuo paese d’origine il 23 aprile, come fai ogni anno per la festa dei patroni Giorgio e Giacomo. Non convincerai nessuno.
Poi ci sono i lavori procurati agli amici dei mafiosi, in cambio dei loro voti. E’ la prova regina che t’inchioda. C’è una telefonata in cui Raso ti segnala una persona di sua fiducia per un posto nella cooperativa Leone rosso, che cura l’assistenza agli anziani. Sei tu che gli dici di presentare il curriculum al coordinatore della Coop, Francesco Buratti. Ti scagiona forse il fatto che nessuna delle persone segnalate da Raso sia stata assunta, o che lo stesso Buratti testimonierà a tuo favore? Gli inviavi, dirà in udienza, tra cinque e dieci curriculum all’anno, non hai mai fatto pressioni, ti bastava che ai tuoi raccomandati fosse garantito un colloquio. Ma tra questi, ha scoperto la procura, c’è la figlia di tua cugina, a cui è stato assegnato uno stage di tre mesi. E se pure tua cugina ha protestato con te per il salario da fame che le è stato corrisposto, quattrocentocinquanta euro al mese, sempre di favore si tratta.
E’ mafioso tutto questo? Lo chiedi esterrefatto ai tuoi inquisitori in tre ore di botta e risposta. A fianco hai l’avvocato Raffaele Della Valle, un principe del foro, lo storico difensore di Enzo Tortora, il perseguitato per antonomasia dalla giustizia. E mentre parli con le energie che ti restano, ti sembra di essere un Tortora qualunque, con un destino di perseguitato di cui nessuna cronaca, nessun libro mai si occuperà. Perché sul volto dei due pm, che ti stanno di fronte, vedi la diffidenza e il pregiudizio di chi ti ha già condannato. Uno di loro, Stefano Castellani, sembra almeno disposto ad ascoltarti. L’altro, Valerio Longi, ti fissa e ti interrompe in continuazione, certo di trovarsi di fronte a un colpevole che nasconde le carte e mente. Ora vedi di fronte a te ergersi la montagna di un processo che si staglia più alta del Bianco, la cui maestà ammiravi estasiato e intimorito da bambino nelle tue passeggiate domenicali con papà. Hai passato la notte in piedi nella cella, ripetendo a mente le frasi con cui avresti voluto convincerli della tua innocenza. Sei uscito all’alba con le manette ai polsi, nella gabbia di un celerino hai viaggiato per un’ora, da Biella alla procura di Torino, e adesso ti senti improvvisamente come un insetto rovesciato che si dimeni agitando le zampette nervosamente, nel tentativo di rigirarsi per non morire.
Ti hanno eletto loro, i mafiosi, cioè i calabresi, e comprendi quanto i due termini siano vicini in quest’indagine, tanto da confondersi e da disarmare la tua difesa. Perché il consenso di cui godi nella comunità meridionale suona già come un’aggravante. E’ pur vero che nelle carte dei pm non si spiega quanti siano i valdostani di origine calabrese minacciati dai mafiosi perché ti votassero, chi in concreto abbia svolto l’attività di proselitismo, in quale modo sia stata esercitata l’intimidazione mafiosa nei confronti dell’elettorato. Sembra piuttosto che un gruppo di persone di origine calabrese, desiderose di avere un candidato della loro provenienza geografica in grado di capirne i problemi, abbia convogliato, o finto di convogliare, i voti su di te. Perché talvolta il sostegno coincide con la millanteria. Come quando Raso chiama l’amico Ferdinando Carere, invitandolo a congratularsi con te dopo la tua elezione e a farti sapere che la sua famiglia ti ha sostenuto, “poiché, gli dici, con Raso ho pianificato tutto”. E aggiunge poi, scusandosi quasi per non averlo chiamato prima del voto: “Non è che ti ho telefonato per romperti i coglioni a te, con i cazzi che avevi ...”.
Non dovrebbe forse bastare questa intercettazione a scagionarti? Ti rispondi da solo che non è così, mentre ascolti i tuoi inquisitori declinare nel sospetto ogni connessione tra te e la tua comunità. Il “noi”, che ricorre nei colloqui intercettati e designa un modo di relazionarsi che è parte della tua cultura, è già diventato “noi ndranghetisti calabresi”. La tua domanda di scarcerazione è bocciata, con piena convergenza, dai pm, dal gip, Silvia Salvadori, dal tribunale del Riesame e perfino dalla Cassazione. La montagna è troppo più alta di te. La montagna è un pregiudizio granitico, un travisamento colossale contro il quale occorrerà mettersi in cammino, verso quei giudici che, immuni dalla miopia del senso comune e dalle sirene della piazza, smaschereranno l’inganno delle interpretazioni in cui sei caduto. Ma quei giudici sono lontani sette mesi di carcere e due anni e mezzo di arresti in casa. Sorbara, prenda le sue cose, la portiamo in sezione.
E’ qui che capisci quanta vana sia la distinzione penale, e morale prima ancora, tra colpevoli e innocenti. E’ qui che l’illusione di dimostrare che sei finito dentro per sbaglio si frantuma e si confonde in una precaria lotta per la sopravvivenza. Stai in un lunghissimo corridoio da cui si dipartono, per ciascuno dei due lati opposti, venticinque celle. Alle otto del mattino le loro porte si aprono e ci si ritrova in questa piazza globale di settanta metri per otto, dove la lingua definisce le aggregazioni e gli italiani sono un gruppo tra i tanti. Capisci presto che sopravvivere al carcere vuol dire imparare a relazionarsi sotto l’occhio delle telecamere in questa giungla, dove l’esercizio del baratto e una misurata prepotenza ne fondano la costituzione non scritta. Comandano i più anziani e i più pericolosi, a patto che sappiano imporsi senza esagerare, esercitando l’arbitrio entro il limite in cui non sia conveniente per te reagire o denunciarli. Che si tratti di aspettare il turno per usare la lavanderia o di giocare a tressette nella saletta attigua, dove a dare le carte sono sempre gli stessi, ogni gesto della tua vita qui dentro deve confrontarsi con questa pace dei più forti che somiglia a una fragile tregua, sempre sul punto di spezzarsi in uno scoppio d’ira, senza però che ciò accada quasi mai. Perché a nessuno conviene che arrivino gli agenti penitenziari, squadernino le celle perquisendole, attivino una procedura che può riportarti a un isolamento punitivo.
Il tuo compagno di cella è uno sconosciuto con cui ti tocca di stare dalle venti alle otto del mattino, disteso su uno dei due letti a castello, o condividendo lo spazio di quattro passi per due con un tavolino in mezzo, e da cui si apre un bagno con un lavandino e un vaso. Lo sconosciuto può russare o piuttosto avere seri problemi mentali. Tocca a te sopportarlo, e talvolta difenderti. In sette mesi hai cambiato tre volte coinquilino. Il primo è un ragazzo instabile, scappato da una comunità dopo aver minacciato un assistente sociale. La sera lo imbottiscono di psicofarmaci, per rendere sostenibile la sua detenzione. Così può capitargli di svegliarsi di notte, mettersi a cavalcioni sul letto a castello superiore e urinarti addosso in stato confusionale, oppure di uscire dal bagno imbrattato delle sue feci e rimettersi a letto. Vorresti gridare, chiamare le guardie, ma sai che non ti conviene. Perché non sai come può prenderla, e tu non puoi permetterti una rissa. Meglio subire, regalargli un pacco di biscotti e proporgli di dormire nel letto di sotto, limitando il danno.
Il secondo ti ha detto che è in carcere perché ha picchiato sua madre. Adesso ti fa un sacco di domande sulla tua vita, troppe per non insospettirsi. Sembra tanto un confidente. Il terzo è ciclotimico, si sveglia con l’umore a mille e va in depressione due ore dopo. A mezzogiorno si ricomincia, eccitazione e lite, poi di nuovo inerte sul letto. Nei momenti di lucidità ti racconta la sua vita: l’hanno stuprato a dodici anni, ha visto uccidere, non conosce altra educazione, ti pare inadatto a qualunque compagnia. Dice di preferire la galera ai domiciliari. Biella vecchia ti pare sempre più il carcere degli psicopatici e degli sfigati, come te del resto. La cella a fianco alla tua è tappezzata di cartoni, il suo inquilino non esce mai, vive chiuso tra mosche e miasmi che ti investono giorno e notte. Ma presto impari a anestetizzare gli odori come i dolori, e perfino i sentimenti. Sei una statua di sale, tenuta in vita dalla paura. Zero memorie di affetti, zero amicizie dentro, sopravvivi nella giungla del carcere dribblando i contatti pericolosi e i ricatti sempre in agguato.
La solidarietà è un privilegio dei condannati, chi sta in custodia cautelare non può permettersela. Hai paura di parlare con chiunque. Ti accusano di essere complice della mafia, se per caso ti capita di scambiare una chiacchiera con uno che mafioso lo è per davvero, fanno presto a fare due più due. Vivi con la percezione costante di essere intercettato. La prudenza ti irrigidisce. Qualcuno la scambia per supponenza. Per loro sei un politico, sei ricco, tuo fratello avvocato viene a trovarti un giorno sì e uno no, quando i tuoi compagni l’avvocato lo vedono una volta al mese, se va bene. Se ti avvicinano, è per farsi comprare le sigarette. Non puoi dirgli di no, ma devi schivare i contatti. Se entrano nella tua cella è per farti capire che comandano loro. Ti portano via biscotti e patatine, non per mangiarle, ma per darti un avvertimento. Non devi reagire alle provocazioni. Giorni fa facevi il caffè per il tuo compagno che era sotto la doccia, quando è entrato in cella un albanese e ha preso in mano la tazzina calda, gli hai detto che non era per lui e te l’ha tirata in faccia. Hai ingoiato la tua rabbia. Non devi, non puoi cadere nel tranello di reagire. Allo stesso modo non devi esibirti. Hai capacità di relazione? Nascondila a te stesso. Se ti chiedono un chiarimento di diritto, daglielo, ma non una parola in più di quello che serve. Il fascino che puoi suscitare è l’altra faccia dell’invidia che si prova nei tuoi confronti. Per salvarti qui dentro devi ridurti al minimo vitale, mettere in sonno bisogni e stimoli. In duecentoquarantacinque giorni hai perduto più di venti chili.
Diserti spesso l’ora d’aria e mercoledì, quando si va tutti nel campo sportivo, rinunci alla partita. Ti limiti a girare attorno al rettangolo di gioco ispirando forte, mentre la tua vista si perde tra le Alpi biellesi. Non puoi rischiare di farti male. La dipendenza dagli altri aumenterebbe e tu adesso hai bisogno di sentirti forte. Non vuoi e non puoi chiedere aiuto in un non luogo che non ti appartiene e che svuota la tua stessa esistenza fisica. Ti dici che non ce la fai, non ce la fai, e poi reagisci. Ti ripeti che non ce la fai, non ce la fai, e poi reagisci. Il tuo umore è una coazione a ripetere sull’orlo del baratro. Ogni volta che tua madre ti saluta, dopo una visita, ti sembra di piombarci dentro. La sofferenza, ancorché a te dissimulata, trapela dai suoi occhi e ti devasta. Il tuo rifugio è la solitudine. Per questo il momento migliore, in carcere, è al mattino. Alle otto gli agenti aprono le porte delle celle, ma tutti ancora dormono. Un detenuto marocchino addetto alla colazione ti porta l’acqua calda per il tè, risciacqui le canottiere che la sera prima hai messo a bagno con il sapore di Marsiglia, e mentre le stendi ti pare di sentire nel silenzio qualcosa di fresco. Per un attimo perfino l’inferno ti sembra tuo. Dura poco, è un’illusione.
Alla quinta istanza, però, sei fuori. Questi atti processuali sono un bagno di sangue. Quando perfino la Cassazione ti dice che devi restare lì dentro, hai già speso già un patrimonio. Hai detto a tuo fratello: è l’ultima, se la respingono non la ripresentare più. Troppe volte hai intuito un sorrisetto sulla bocca dell’agente che ti consegnava l’ordinanza di rigetto. Ma alla sessione estiva c’è un giudice che viene da fuori, ha letto le carte e hai la sensazione che possa finire bene. Ancora oggi io non so come spiegare al mio assistito perché stia in carcere, gli dice tuo fratello. Lui sembra condividere. Sorbara, può andare a casa, ti annuncia due giorni dopo l’addetto dell’ufficio matricole, ma entro due ore deve essere ad Aosta e chiamare i carabinieri. Ed è in quel momento che la tua paura, anziché svanire, cresce al punto da farti vedere il carcere come il rifugio più sicuro. Da qui non esco, dici, se non chiamate mio fratello. Non ho una lira, come arrivo ad Aosta in due ore?
Il carcere non finisce quando l’ultimo cancello si richiude alle tue spalle. Anzitutto perché sotto casa c’è una pattuglia di giornalisti pronti ad assediarti, che ti costringono a coprirti il volto e infilarti con l’auto nel garage. E poi perché l’odore della cella non ti si scrolla di dosso neanche se, come ti accade, passi le prime due notti a fare docce a ripetizione. Quell’impasto di sporco, muffa, cibi avariati, che hai respirato per duecentoquarantacinque giorni, si è dematerializzato. Per una sorta di transfert sensoriale è passato dal naso al cervello. Ce l’hai dentro come un’impronta indelebile, mescolata alla paura che continua a segnare tutti i tuoi gesti. Paura di affacciarti al balcone, di incrociare lo sguardo in strada di qualcuno che ti conosce e di essere tentato di rispondergli. Non puoi parlare con nessuno. Hai il divieto di gettare la spazzatura nell’atrio del palazzo o di andare nel cortile. Tuo fratello, l’altro, il croupier, ha dovuto attendere una nuova autorizzazione del giudice per venirti a trovare. Così ti avvicini alla finestra, sbirciando tra i riflessi della luce la Becca di Nona che, con la sua immobile maestà, ti racconta tutta una vita, la tua.
Se la Calabria è il primo cromosoma della tua identità, il secondo è la montagna. Ci sei nato sotto di mercoledì, il tre maggio del millenovecentosessantasette, in una casa del quartiere Cogne, dove tuo padre è giunto tredici anni prima, appena diciottenne, con un certificato di bracciante agricolo, per poi trovare un posto come impiegato dell’Enel e mettere su famiglia. Lui primo di quattordici figli che il Sud generoso spediva per ogni dove, tu secondogenito di tre nativi immigrati. Figlio di una transizione tra la povertà e il benessere, tra il sacrificio e il piacere. Dalla mamma, sarta in casa per arrotondare, impari il patois. Dagli zii l’arte del muratore d’estate, tanto da desiderare come pochi l’inizio della scuola. D’inverno ti cimenti con l’hockey, fino a scalare le tappe del semiprofessionismo e conquistare la Coppa Italia di serie A con la squadra del Curmaosta. Poi il tumore al cervello che in sei mesi si porta via papà, e la promessa, mantenuta, di continuare gli studi, lavorando dall’alba a mezzogiorno come cantoniere e frequentando l’università a Torino nel pomeriggio. Il sei novembre del Duemila la Valle è sotto un’alluvione che farà venti morti e cinquantamila sfollati, sei a bordo di un camion spazzaneve quando la strada cede e fai un volo di quaranta metri. Il ragazzo che è con te e guida il mezzo non ce la fa, sua madre sarà al capezzale, insieme con la tua, nella convalescenza che ti attende. La ritroverai al tuo fianco, vent’anni dopo, nella lunga detenzione domiciliare. Quell’incidente ti parve, e sbagliavi, la prova del fuoco di una vita. Superata la quale tutto è possibile: la laurea e il master da commercialista e revisore contabile a Pisa, la candidatura al consiglio comunale di Aosta, primo degli eletti con l’Union Valdôtaine e assessore ai servizi sociali per due legislature, la seconda con il record di preferenze anche sugli altri partiti, fino all’elezione al consiglio regionale. Stop.
La tua biografia si interrompe qui, il 23 gennaio di un giorno qualunque. Perché la vita meramente biologica di un presunto colpevole non rileva neanche a processo. Non ti resta che sperare che i giudici del dibattimento vogliano conoscere il tuo passato più di quanto abbiano fatto quelli che li hanno preceduti nelle indagini preliminari. A loro racconti che hai verniciato i bagni dei servizi sociali nei quartieri, hai spalato la neve con i ragazzi disabili, la domenica hai accompagnato gli anziani dalle case di riposo alle famiglie, hai presenziato a tutte le feste sociali delle associazioni di volontariato. E intanto, grazie alle competenze da commercialista, hai eseguito i tagli del patto di stabilità senza ridurre l’offerta pubblica del Comune, anzi creando un servizio di prossimità per le famiglie bisognose. Uscivi di casa alle sette del mattino e rientravi tra le dieci e le undici della sera, perfino il giorno di Natale eri al lavoro, nel tuo modo eccentrico di fare il politico, in strada tra la gente travestito da Winnie the pooh. Ti chiamavamo prezzemolino, perché eri dovunque, e Don Matteo, per la tua abitudine a girare in bicicletta e, di più, perché il sabato e la domenica celebravi i matrimoni civili nelle veci del sindaco. Hai sposato in otto anni centinaia di coppie, molte delle quali sono diventate tuoi elettori. Così è fatta la mafia?
Non ti credono. La sentenza di primo grado è una doccia fredda. Perché eri convinto di farcela. Hai pensato fino all’ultimo che l’incubo avesse una porta d’uscita e che ne fossi vicino. Hai atteso il verdetto pregando e correndo a perdifiato sulla pedana del tapis roulant nella tua prigione domestica. Dieci anni di galera adesso ti sembrano un fardello insostenibile. Hai ascoltato la lettura della sentenza mano nella mano con tuo fratello, adesso il pensiero corre a tua madre. Ha settantanove anni. Tra dieci anni potrebbe non vederti uscire dal carcere. Mentre ti chiedi che cosa non ha funzionato, senti franare il terreno sotto i piedi. La tua difesa è stata convincente, i testimoni hanno parlato a tuo favore. Eppure il collegio non ti riconosce neanche le attenuanti generiche. Ti condanna da mafioso e ti chiama a un inusuale risarcimento civile. Centocinquantamila euro alla Regione, centottantamila al Comune e cinquantamila all’associazione Libera, che ha pervicacemente chiesto la tua condanna. Quest’ultima somma è liquidata subito, a titolo di provvisionale, cioè prima che venga celebrato il giudizio d’appello e di Cassazione. Per il diritto sei ancora innocente, ancorché condannato in primo grado: qual è la ragione di un risarcimento immediato? E perché un’associazione di volontariato dovrebbe essere risarcita prima degli enti che hai rappresentato? I tuoi avvocati s’interrogano sulle ragioni di quello che, in assenza di un giudicato definitivo, somiglia a un’irrituale forma di finanziamento. Perché sono molte le contraddizioni e le stranezze di questo processo. La più stridente è la singolare coincidenza argomentativa, e per lunghi tratti letterale, tra le motivazioni della sentenza e la lunga memoria prodotta dall’accusa dopo la requisitoria. Il pubblico ministero l’ha inviata al collegio in formato word e per un magico “copia e incolla” la sentenza ricalca fedelmente le sue ragioni, la sua sintassi e perfino il suo lessico, limitandosi talvolta a sostituire una parola con il suo sinonimo. L’esito di questo giudizio sembra il prodotto di un sistema monolitico, in cui chi accusa e chi giudica formano uno stesso blocco, a dispetto della proclamata terzietà del giudice. E la difesa gioca contro troppi soggetti, riuniti attorno a una stessa cultura inquisitoria e agli stessi pregiudizi. Che assumono come privata l’illiceità di un’associazione a delinquere che non delinque, e non si propone di farlo, una mafia silente che, diversamente da tutte le altre mafie del mondo, non fa affari, tant’è vero che i suoi associati appaiono, quando non del tutto squattrinati, economicamente limitati, ma non chiedono denaro, non inquinano appalti e commesse pubbliche, non inseguono concessioni, autorizzazioni e servizi di qualunque natura. Si comportano piuttosto come i soci di una onluss benefica o un’agenzia interinale, impegnata a collocare, nell’ambito del servizio mense o dell’assistenza agli anziani, amici e conoscenti al limite dello stato di indigenza.
La loro colpevolezza sta in una presunta appartenenza alla ‘Ndrangheta, che troppo coincide con la certa appartenenza alla comunità di valdostani di origine calabrese. Ogni qualvolta nelle intercettazioni parlano al plurale, come abitualmente fanno i meridionali che si percepiscono portatori di una stessa identità, il loro “noi calabresi” per il tribunale deve intendersi come il “noi ‘ndranghetisti”. La sentenza finisce così per certificare, in quanto prova, il pregiudizio che gli imputati avvertono attorno a sé come un’ingiustizia. Un pregiudizio così fatto diventa una camicia di forza sulla realtà, capace di attribuire alle parole un senso opposto a quello che hanno. Le intercettazioni che ti condannano sono lo strumento di un colossale travisamento. Tu hai detto, confidando la tua amarezza al tuo amico ristoratore: “Sette anni che dicono che sono ‘ndranghetista. Fino a prova contraria, tocco ferro… tocco ferro e tocco anche la miccia, perché in questo caso devo toccare anche la miccia… Eppure mi fate i peli del culo su tutto… Quando porto una pratica di un calabrese, fanno la radiografia… Devo aprire una partita Iva di un calabrese? Mi fanno aspettare due mesi. E allora, ci svegliamo che forse dobbiamo svegliarci un po’ noi? Capisci? E questo lavora per me? E’ ‘ndranghetista… L’avvocato Sorbara ha tanti clienti? Sarà massone o ‘ndranghestista… Ma uno non pensa che forse mio fratello, oggi è domenica, è da ieri che non riesco a vederlo perché è dentro che lavora?”.
Sfoghi come questo diventano nella lente strabica del pregiudizio un elemento soggettivo di colpevolezza. “L’assurda ermeneusi del tribunale”, scrive nella sua memoria d’appello l’avvocato Raffaele Della Valle, “è espressione di una inaccettabile cultura che associa l’essere calabrese con l’essere mafioso e la “calabresità” come circostanza aggravante di mafiosità”.
Tra la sentenza di primo grado e quella d’appello passano ventidue mesi. La scommessa sui noccioli di mandarino è stata sostituita da un frenetico programma di training sportivo: lunedì camminata, martedì corsa, mercoledì camminata, giovedì corsa, venerdì camminata, sabato corsa, domenica riposo. Flessioni mattina e sera. Sul tapis roulant si può scacciare la tentazione di arrendersi e farla finita. A quattro mesi dalla sentenza ottieni l’autorizzazione a uscire di casa per andare dalla psicologa e per lavorare part time tre volte alla settimana in un magazzino di autotrasporto. Non prima di aver telefonato ai carabinieri per avvisarli che stai per lasciare l’abitazione. L’assessore e revisore dei conti ora lava i camion, come uno di quei professori dissidenti che i regimi comunisti cacciavano dalle università. E’ stato il fratello avvocato a contattare alcuni suoi amici, titolari del magazzino e a chiedergli: prendereste Marco come inserviente? Ormai sei un’altra persona. Il calvario giudiziario ha scarnificato, insieme con la reputazione, il morale. Quand’anche dovessi farcela in appello, temi di non avere la forza per rimetterti in piedi. Anche perché l’avvocato Della Valle ti ha spiegato che il processo non finisce con la sentenza di secondo grado. Se pure ti assolvono, dobbiamo andare in Cassazione, ti ha detto. Perché i pm non accetteranno di essere smentiti. E siccome loro, a differenza tua, non rischiano niente, andranno avanti a oltranza. Devi prendere il processo come una malattia cronica. Comunque vada, lascerà su di te segni incancellabili.
I pm confermano questa previsione. Davanti al collegio di Torino, i sostituti Castellani e Longi, e il procuratore d’appello, Giancarlo Avenati Bassi, che a loro si è aggiunto, chiedono per te la conferma della condanna a dieci anni. Ma il quattordici giugno, quando tuo fratello avvocato pronuncia l’arringa finale, qualcosa si sblocca. Perché la corte sembra ascoltarlo con attenzione. Un mese dopo sei assolto perché il fatto non sussiste e liberato. “Nessun asservimento delle funzioni pubbliche alle esigenze del clan risulta dimostrato”, motiverà la Corte certificando che “il fatto non sussiste”. Non stava né in cielo né in terra che tu fossi mafioso, e devi quasi rallegrarti che l’infamia di questa accusa sia stata spazzata via in poco meno di tre anni, perché c’è chi ne ha dovuti attendere molti di più. Ma ancora non puoi gioire, non puoi parlare, non puoi rivendicare giustizia né risarcimento alcuno. Devi trattenere il fiato, stare in un limbo per altri due anni, in attesa che la Cassazione ponga fine a questa tragica farsa. Vai via dalla valle, cerca lavoro in Francia, passeggia in montagna, respira lungo. Tua madre ha trovato consolazione nella compagnia di Maria, la mamma del ragazzo morto vent’anni prima al tuo fianco nell’incidente del camion spazzaneve. Sono due donne a cui il destino ha tolto un figlio, questa giustizia ha nella loro percezione la stessa spietatezza del caso.
Poi finalmente arriva il giorno del giudizio finale. E ritornano i fantasmi, la paura del carcere, le notti insonni trascorse sotto la doccia per scacciare lo sporco del mondo che ti insegue per ogni dove. La procura ha impugnato nell’ultimo giorno utile, e ritorna a tuonare in giudizio con gli stessi argomenti. Ma il travisamento delle intercettazioni è giunto finalmente alla prova di una corretta logica giuridica. Qui il castello di pregiudizi, congetture e associazioni improbabili si frantuma in mille pezzi. La Cassazione non solo dichiara inammissibile il ricorso del pm contro la tua assoluzione, ma smonta la tesi di un’associazione di ‘Ndrangheta ad Aosta. La sentenza di secondo grado è cassata con rinvio ad un’altra sezione della Corte d’Appello di Torino, perché ripeta il giudizio nei confronti di tutti gli altri imputati. Mancano reati fine, cioè azioni delittuose tipiche della mafia, come omicidi, estorsioni, minacce, e danneggiamenti. Manca l’esteriorizzazione della forza intimidatrice. Manca un modello organizzativo tipicamente mafioso, fondato su “distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere”, cioè i tratti distintivi del sodalizio che lascino “presagire una già attuale pericolosità per l’ordine pubblico”. La mafiosità, spiega ancora la Cassazione, si fonderebbe sul “collegamento funzionale con la “casa madre” calabrese, di cui, peraltro, non sono puntualizzati dati relativi alla sua coeva esistenza, strutturazione, organigramma ed operatività”. I giudici d’Appello, che pure avevano assolto Sorbara e condannato gli altri, avevano ritenuto la “locale” aostana una promanazione della ‘ndrina dei Nirta di San Luca. “La motivazione, tuttavia, è – secondo i supremi giudici - carente sotto alcuni profili e manifestamente illogica sotto altri, limitandosi in effetti la Corte d’Appello a indicare che detto collegamento dovrebbe derivare da alcuni viaggi effettuati da un soggetto, Giuseppe Nirta, avente lo stesso cognome della stirpe Nirta, ad Aosta”. Il giudizio finale è clamorosamente liquidatorio: “La Corte d’Appello ha tratto in maniera apodittica, perché basata su una serie di ipotesi e congetture, elementi significativi sulla operatività del sodalizio”.
Ti hanno incriminato come complice di un’associazione mafiosa che non è provata, e probabilmente non è mai esistita. Il processo alla ‘ndrangheta che pratica un metodo “non mafioso” era un ossimoro, dietro il quale si celava un processo ai calabresi. Piegando le intercettazioni a una lettura criminogena, dilatando le fattispecie di reato, un teorema di sospetti e pregiudizi è passato come un uragano sulla vita di una comunità. Ti chiedi ancora come sia potuto accadere. I tuoi legali ti spiegano che una malattia della giustizia ha trasformato il diritto in una giungla, dove le regole sono lasche come un elastico e ciascuno le tende per quanto può. Cosicché tra il diritto messo a fuoco dalla Cassazione, con una supplenza legislativa che non fa onore alla politica, e il diritto di strada, quello che si pratica nelle indagini preliminari e in molti fori di primo e secondo grado, si apre una distanza incolmabile. I supremi giudici hanno coniato la figura delle “mafie silenti”, che esportano il loro dominio oltre il confine dei loro territori d’origine, più spesso al Nord. Nelle intenzioni dei giudici-legislatori si volevano colpire “ì sodalizi che esercitano il metodo mafioso senza ricorrere a forme eclatanti, come omicidi e attentati, ma avvalendosi di quella forma di intimidazione, per certi versi ancora più temibile, che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere*”. La prova che queste condotte siano reali in un territorio è data dalla paura e dall’omertà dei cittadini. Ma come si è potuto adottare questo paradigma in Valle D’Aosta, dove nessun imprenditore soggiacerebbe alla minaccia di pagare il pizzo? E’ accaduto, ti spiegano ancora i tuoi legali, per effetto di quella stessa malattia che induce alcuni magistrati ad andare oltre, a stressare le fattispecie e le procedure in nome del fine nobile di anticipare la tutela, cioè di colpire il cancro della mafia prima che produca le sue metastasi nella società. Cosicché accade che la mafia non sia più considerata silente perché esercita le sue minacce sotto traccia, ma perché si ritiene minacciosa potenzialmente, senza che abbia espresso alcuna intimidazione concreta. Vuol dire anticipare la tutela penale al punto da spostare il giudizio dal reato al presunto autore, dalla colpevolezza alla pericolosità, dalla prova al sospetto. Ma la pericolosità è, scusate il gioco di parole, molto pericolosa. Perché non si fonda su condotte e su fatti predeterminati e accertabili, ma su giudizi soggettivi. Perseguire una pericolosità potenziale vuol dire consegnare al magistrato il potere e la responsabilità di stabilire che i calabresi sono pericolosi anche quando non delinquono, e di condannarli in quanto potenzialmente mafiosi!
Da revisore contabile guadagnavi bene, da assessore al comune di Aosta un po’ meno, ma ti piaceva tanto. Non hai famiglia, vivevi con tua madre, potevi permetterti una riduzione dello stipendio. Da consigliere regionale eri arrivato a semiladuecento euro. Li hai presi solo per cinque mesi. Poi il diluvio sulla tua vita. Hai perso tutto e l’assoluzione non ti ha restituito che una parte della tua reputazione. Perché ci saranno sempre quelli che continueranno a pensare che l’hai fatta franca. Il reinserimento di un innocente non è meno problematico di quello di un condannato. Per intanto giri l’Italia per raccontare la tua storia nelle scuole e a chiunque voglia ascoltarla. Il quotidiano “Il Dubbio” ha allestito alla Fiera del libro di Torino una cella d’isolamento simile a quella in cui sei rimasto quarantacinque giorni, in piedi con un mandarino tra le mani e un’ordinanza di ottocentosettantadue pagine che ti accusava di concorso esterno in associazione mafiosa. La premier Giorgia Meloni, correggendo il suo guardasigilli, ha detto che la modifica del concorso esterno non è una priorità di questo governo.
Alessandro Barbano è da alcune settimane in libreria con “La gogna. Hotel Champagne, la notte più buia della giustizia”, edito da Marsilio.
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