L'analisi
Come la Consulta nel 2023 ha difeso il Parlamento dall'invadenza delle toghe. Parla il prof. Grosso
Nell’ultimo anno per tre volte la Corte costituzionale si è espressa per difendere le prerogative dei parlamentari dalle invasioni di campo della magistratura. I casi Renzi, Ferri ed Esposito spiegati dal costituzionalista Enrico Grosso
Più garanzie per i parlamentari di fronte alle invasioni di campo della magistratura. E’ questo il più importante lascito del 2023 della Corte costituzionale. Nell’ultimo anno, infatti, per tre volte la Consulta è stata chiamata a esprimersi per difendere le prerogative costituzionali dei membri del Parlamento dall’invadenza delle toghe. Un percorso non privo di contraddizioni, che ripercorriamo con Enrico Grosso, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino. “La sentenza più innovativa – dice Grosso – è stata certamente la n. 170”, quella che sostanzialmente ha dato ragione a Matteo Renzi contro la procura di Firenze, che nell’ambito dell’inchiesta Open aveva acquisito, senza preventiva autorizzazione del Senato, messaggi di posta elettronica e WhatsApp di Renzi conservati in dispositivi elettronici appartenenti a terze persone.
“La Corte ha definitivamente chiarito che i messaggi WhatsApp, e-mail, sms e tutta la corrispondenza istantanea rientra nella nozione di corrispondenza posta sotto tutela dell’articolo 15 della Costituzione, e quindi dell’articolo 68”, spiega Grosso. “Di conseguenza, anche l’acquisizione di questi messaggi presso il destinatario deve essere oggetto di autorizzazione preventiva da parte del Parlamento. Si tratta di un notevole rafforzamento delle garanzie del parlamentare”, aggiunge.
Facciamo un salto in avanti e arriviamo alla sentenza depositata lo scorso 28 dicembre riguardante il caso di Stefano Esposito, ex senatore intercettato circa 500 volte per tre anni (dal 2015 al 2018) dalla procura di Torino senza alcuna autorizzazione del Parlamento, e poi rinviato a giudizio sulla base di 126 di queste intercettazioni, anche qui senza autorizzazione. Esposito era stato intercettato indirettamente nell’ambito di un’inchiesta che riguardava un suo amico imprenditore. “La Corte costituzionale ha affermato in maniera molto netta che i magistrati hanno agito al di fuori delle regole costituzionali”, dichiara Grosso.
“I giudici hanno ricostruito data per data tutti i procedimenti aperti nei confronti di Esposito, nonché i contenuti delle informative, concludendo che a partire da agosto del 2015 le intercettazioni nei riguardi del senatore non hanno più avuto un carattere casuale, bensì indiretto, e dunque necessitavano dell’autorizzazione del Parlamento”, spiega il costituzionalista. In altre parole, a partire da agosto 2015 è avvenuto “un cambiamento negli indirizzi investigativi dei pm chiaramente e univocamente rivolti ad approfondire l’eventuale responsabilità penale anche del senatore Esposito, come conferma il contenuto delle informative della polizia giudiziaria”.
In diversi hanno notato una contraddizione tra questa sentenza e quella con cui, lo scorso luglio, la Corte costituzionale ha dato torto alla Camera che aveva negato al Csm l’uso delle intercettazioni compiute – tramite il trojan inoculato nel cellulare di Palamara – nei confronti dell’allora deputato Cosimo Ferri nel celebre incontro all’Hotel Champagne di Roma del 9 maggio 2019. Anche in quell’occasione, infatti, nei giorni precedenti all’incontro Ferri era stato intercettato svariate volte con il suo amico Palamara e alcune di queste conversazioni avevano riguardato proprio la programmazione della riunione. “Credo che con la sentenza su Esposito la Corte abbia anche voluto chiarire alcuni aspetti rimasti un po’ sospesi dalla precedente sentenza sul caso Ferri”, dice Grosso.
La Corte, infatti, ha spiegato che “il carattere abituale delle conversazioni tra il soggetto indagato e il parlamentare non è di per sé sufficiente a rendere quest’ultimo destinatario di una specifica attività di indagine, elevandolo a bersaglio dell’atto investigativo, né, quindi, la sola prevedibilità dell’interlocuzione tra l’indagato e il parlamentare rende necessaria l’acquisizione dell’autorizzazione del Parlamento affinché possa essere proseguita l’attività di captazione sull’utenza telefonica del primo”. Insomma, in quel caso per la Corte non c’erano sufficienti elementi per sostenere che i magistrati avessero cambiato indirizzo investigativo, estendendolo anche nei confronti di Ferri.
“La Corte si è presa una bella responsabilità”, afferma Grosso. “Chi decide infatti quando la direzione dell’indagine è cambiata verso il parlamentare? La Corte costituzionale stessa”. Questa ampia discrezionalità rischia in futuro di creare non poche tensioni istituzionali.