giustizia
L'estenuante caccia alle prove dell'innocenza occultate nelle indagini col Troyan
Delle intercettazioni nascoste. La storia che vede protagonista l’avvocato Giuseppe Milicia assomiglia a una indomita resistenza. E’ la storia di un’inchiesta e di un processo nella cronica asimmetria tra chi accusa e chi si difende
Qui si racconta una guerriglia. Altro che parità tra accusa e difesa. Altro che prova che si forma nella dialettica tra le parti. Qui si racconta una guerriglia vietnamita, dove il pm fa la parte degli americani e all’avvocato è riservata la sorte dei vietcong. Se vuole salvare il cliente, e talvolta se stesso, l’avvocato deve sgusciare, come avrebbe detto Mao Zedong, con la velocità di un pesce nell’acqua, colpire il nemico con agguati a sorpresa, per poi sparire nella boscaglia. In un’azione penale fatta di sole intercettazioni, è il loro possesso a fare la differenza. Il pm le intercettazioni le detiene, le assembla e le dosa a suo piacimento. Le nasconde. L’avvocato deve scovarle dall’arsenale in cui sono custodite e disinnescarle, come si fa con le mine. E’ una corsa contro il tempo, fatta di astuzia e spregiudicatezza. Vista dall’esterno, può turbare o, addirittura, sconvolgere. Perché sotto il sagrato dove la giustizia celebra sovrana la catarsi della verità, si menano colpi bassi senza alcun rispetto delle regole. Ma questo è il processo lasciatoci in dote dai guardasigilli Orlando e Bonafede, ritinteggiato dalla Cartabia, come si fa per rinviare una ristrutturazione. Eppure rimasto lì, nella sua cronica asimmetria tra chi accusa e chi si difende. Prendere o lasciare. Attrezzarsi o soccombere.
Giuseppe Milicia si attrezza. Sessant’anni che non li diresti, un pizzetto da intellettuale sotto un caschetto da combattente, un singolare impasto di passione civile e amaro realismo. Anni fa distribuì una lettera ai colleghi della Camera penale di Palmi per invitarli a bonificare i propri studi legali dalle microspie della polizia giudiziaria. Oggi che la stessa Camera presiede, non ha dismesso il giubbotto antiproiettile quando calca aule bunker e tribunali tra Catanzaro e Reggio Calabria. La storia di cui è protagonista somiglia a una indomita resistenza.
Si processa un sistema, lo stesso presente in tante inchieste calabresi da rappresentare ormai un copione seriale. C’è la ’Ndrangheta, c’è la massoneria e c’è la politica. Tre livelli che s’intersecano e che fanno librare l’azione penale sopra l’arcaico tribalismo mafioso da cui è partita, e in cui rischierebbe di condannarsi all’anonimato. E ci sono tomi di intercettazioni da farci una biblioteca leopardiana. Poiché per tre anni il Troyan si è accasato negli smartphone di decine di indagati e ha prodotto una gigantesca radiografia del male nascosto nei progetti, nelle intenzioni o più semplicemente nei desideri di una comunità. Così riti di affiliazione tra inguaribili ’ndranghetisti locali si mescolano, in questa immensa raccolta di reperti umani, a relazioni politiche e a progetti di inquinamento giudiziario. E l’inchiesta prende il volo.
C’è un imputato, Domenico Laurendi, assolto in primo grado in un’altra inchiesta di mafia, ma convinto che in appello non la scamperà. Per questo è a caccia di giudici da avvicinare e corrompere. Ci sono due fratelli, uno candidato alle regionali con Fratelli d’Italia dopo due legislature da sindaco, l’altro consulente del lavoro e suo consigliere elettorale. Si chiamano Domenico e Antonino Creazzo. La loro vita professionale e di relazione sta su un crinale sottilissimo, ma non inedito da queste parti, che divide il bene dal male, l’Antimafia dalla mafia. Di qua c’è Ivana Fava, figlia dell’appuntato Antonino Fava, assassinato il 18 gennaio del 1994 da un commando misto di ‘ndranghetisti e mafiosi: è entrata nell’arma con la legge in favore dei familiari delle vittime, ed è tenente presso la scuola allievi di Reggio Calabria. Di là c’è Domenico Alvaro, appartenente a una nota famiglia di ‘ndrangheta, con una condanna a sette anni già scontata. Ivana è moglie di Antonino. Antonino è amico d’infanzia di Domenico. Domenico ha sposato Grazia, anche lei avvocato. Grazia è amica d’infanzia di Ivana. Un simile intreccio di affetti e di vita non può stare tutto dentro una fotografia, allegata all’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia, che – come recita l’ordinanza del gip – “ritrae le due coppie sorridenti, a tavola, in un non meglio individuato ristorante”. Nella grammatica del sospetto basta il sorriso: l’inchiesta ipotizza che Creazzo sia stato eletto con i voti della mafia e in cambio abbia aiutato i mafiosi ad aggiustare i loro processi.
Ci sono però molte cose che non tornano in questa indagine, scattata all’alba del 25 febbraio 2020 con sessantacinque ordinanze di custodia cautelare, di cui 53 in carcere, eseguite tra Sant’Eufemia d’Aspromonte e Bergamo, passando per Milano, Novara, Lodi, Pavia, Ancona, Pesaro, Urbino e Perugia. Con un metodo che pare una coazione a ripetere. C’è un nucleo ristretto di presunti mafiosi, poi un secondo livello di colletti bianchi delle professioni e delle logge, e un terzo che punta al cuore delle istituzioni. I tre livelli non sono tenuti insieme da condotte convergenti su uno stesso piano criminoso, ma da quello che potremmo definire un contagio fatto di relazioni, accostamenti, congetture. I reati sono tanti e diversi, ciò che li unifica è un paradigma classico nelle inchieste della magistratura reggina o catanzarese: l’idea che la politica sia il motore dell’intero sistema criminale. Ma la stranezza maggiore è l’esiguo numero di intercettazioni allegate dal pubblico ministero Giulia Pantano e presenti nell’ordinanza del gip rispetto a quelle eseguite in tre anni di ascolti massivi e costanti su un’intera comunità di sospettati.
Giuseppe Milicia ha imparato negli anni a cercare l’ago nel pagliaio. E’ questa l’abilità che distingue, da queste parti, un avvocato. Sono processi di polizia, fatti di sole intercettazioni, e informative che le selezionano e le assemblano, le decodificano e le offrono sul piatto al pubblico ministero. Che a sua volta le ricompone in un racconto coerente con la tesi accusatoria. La salvezza dell’imputato non sta mai nel poco che il pm salva, ma nel molto che lascia fuori. Nel pagliaio, appunto.
Ma nel pagliaio ci vuole tempo e pazienza, perché non è che un ago venga fuori per caso, e il primo giorno. E perché nei processi di mafia la precipitazione è un errore capitale. Il giudizio abbreviato è una roulette russa, in una percentuale altissima di casi il giudice conferma la tesi della procura. Nel dibattimento di un giudizio ordinario, la percentuale invece si capovolge. Eppure sono tanti gli imputati a scegliere l’abbreviato. Quando sei sotto inchiesta, il fiato ti si accorcia. E se sei agli arresti, ti manca del tutto. Magari il tribunale ha rigettato il tuo ricorso, magari la Cassazione ha confermato il rigetto, allora s’impossessa di te l’angoscia che la decisione della tua misura cautelare possa diventare una condanna nel merito. E scatta la rassegnazione. L’idea dell’innocenza, a cui sei aggrappato come a una liana, si spezza. E inizi a pensare che, tutto sommato, ti convenga limitare il danno. L’abbreviato assicura uno sconto di un terzo, e con la pena che incombe, può valere molto. Una condanna per mafia vuol dire almeno sedici anni, cinque anni e passa di meno non sono una cosa che tu possa trascurare.
E’ in questi casi che si vede il coraggio dell’avvocato. Quando si tratta di dire al cliente che, se davvero si sente estraneo alle accuse, non può e non deve farsi assimilare al mafioso. Che le amicizie d’infanzia non sono una colpa. Meno che mai le relazioni casuali. E che si tratta di avere fiducia. Perché molte volte ciò che luccica in sede cautelare non è prova in dibattimento. Soprattutto quando a luccicare è un’intercettazione, che non hai ascoltato, di un colloquio che non ricordi. E che potrebbe essere andato in un modo molto diverso da come lo vedi trascritto dalla polizia giudiziaria.
Giuseppe Milicia va a caccia di ciò che il pubblico ministero scarta da quando, giovane praticante, seguiva con sacro riguardo l’avvocato Armando Veneto, una bandiera dell’avvocatura calabrese, macchiata a ottantasei anni da una condanna per corruzione che suona come un’onta. Con il vecchio codice poteva accaderti di trovare, tra gli atti scartati, una ricostruzione del fatto, un verbale di sopralluogo, una testimonianza nei quali individuare una contraddizione che scardinasse le ragioni dell’accusa. Ma è con il nuovo codice che lo scouting è diventato l’essenza stessa dell’attività di difesa, rispetto a un pm che, per tutte le indagini preliminari, riunisce, separa, secreta a suo piacimento. Certo, un dovere lo conserva il pm. Se ha ottenuto gli arresti per uno degli indagati, deve allegare nella richiesta che fa al gip tutte le prove, cioè le intercettazioni che giustificano la misura cautelare. Quando poi chiuderà le indagini preliminari, dovrà depositare tutte quelle che ha raccolto in un archivio da lui stesso custodito, consentendone l’ascolto agli avvocati. Non si tratta di pochi colloqui, ma di tre anni di conversazioni compiute con gli smartphone, su cui è stato inoculato il Troyan. Bisogna immaginare che cosa siano tre anni di ascolti per tredici ore al giorno di decine di persone, per comprendere quale immensa mole di dati sia nelle mani della procura. In questo gigantesco pagliaio, dove chiunque si perderebbe, Giuseppe Milicia saprebbe come cercare l’ago che può cambiare il verso di un’indagine.
C’è un metodo in questa caccia. Si parte dalle intercettazioni che riguardano il tuo indagato e le persone che lui abitualmente frequenta. Di costoro non hai che brandelli di discorsi captati, riportati come prove nella richiesta di rinvio a giudizio del pm e nell’ordinanza del gip. Di ciascuno di questi frammenti, ti manca un prima e un dopo, che possono contestualizzare un discorso, o dare a una frase un senso completamente diverso da quello indicato dall’accusa. Hai una parte, ti serve il tutto in cui quella parte è inserita. Perché il Troyan è uno strumento potentissimo ma, in un certo senso, stupido. Genera i suoi file con un meccanismo che spezza ogni cinque minuti la registrazione e archivia il frame nella memoria del telefonino, per poi inviarlo all’orecchio di chi ascolta. In gergo ogni nuova archiviazione di materiale si chiama “progressivo”. Vuol dire che, per ricostruire una conversazione di mezz’ora, hai bisogno di sei progressivi di cinque minuti ciascuno. Se nell’ordinanza è riportato il progressivo che va dal minuto cinque al minuto dieci, tu vai a cercare quelli che vanno dal minuto zero al minuto quattro e dal minuto undici al minuto trenta. Tanto più se il tuo cliente ti dice che le cose non stanno come le racconta il pm, che le frasi che sembrano accusarlo vanno inserite in un discorso più ampio, in cui hanno un senso diverso, allora hai il dovere di ricostruire quel tutto che l’indagine ha spezzato.
Ma qui accade l’imprevisto che trasformerà il processo in una battaglia all’arma bianca. Perché, con una mossa imprevista, il pm forma un fascicolo parallelo, nel quale riversa tutte le intercettazioni diverse da quelle impiegate. Così è, se vi pare. Ma anche se non vi pare. Perché così ha deciso l’accusa. Le intercettazioni consultabili sono solo quelle allegate alla richiesta di rinvio a giudizio. Tutto il resto è top secret. Perché contiene altre notizie di reato e va approfondito in un’altra indagine. D’accordo, ma perché in questo fascicolò riservato e sottratto alla difesa ci sono anche i cosiddetti progressivi ritenuti irrilevanti? Per meglio dire, c’è una cena intercettata che è considerata prova di partecipazione mafiosa, e di cui si conosce solo una piccola parte, mentre il prima e il dopo sono scomparsi. Ma il prima e il dopo possono dare alla parte che si conosce un senso completamente diverso da quello attribuito dal pm. Possono dimostrare che si sta scambiando una cena tra amici per una cena tra mafiosi, e che il cosiddetto valore probatorio o indiziante di quelle frasi captate può svalutarsi, se solo è possibile contestualizzarle. La risposta del pm è perentoria: quello che hai visto basta e avanza, il resto deve finire in un altro fascicolo. E voi credete che valga la pena contestare questo diniego di fronte al gip? Che valga la pena eccepire che le frasi mancanti sono certamente pertinenti ai fatti contestati? Che lo stralcio abusivo da parte del pm viola quella parità d’armi che dovrebbe riconoscere alla difesa le stesse opportunità di conoscenza dell’accusa, poiché una conoscenza ridotta coincide con una condizione di inferiorità oggettiva? Il gip ti farà notare che il pubblico ministero è il proprietario assoluto e indiscusso delle indagini preliminari. E tu dovrai arrenderti. Perché rischi di fare una battaglia di principio che ti vedrà sempre perdente. Come puoi dimostrare la rilevanza e la pertinenza di ciò che non hai mai visto, perché ti è stato nascosto, e che tuttavia supponi possa esistere?
D’altra parte si fa fatica ad accettare che un’indagine lunga tre anni, che raccoglie una montagna di intercettazioni, ne metta a disposizione della difesa lo zero virgola, perché tutto il resto è invisibile. Giuseppe Milicia scorre incredulo il sommario delle attività di ascolto della procura: il dieci ottobre del 2019 l’intercettazione è durata 21 ore e 21 minuti. Ma ascoltabili sono solo 10 minuti di registrazione. Stessa sorte nei giorni successivi: cinque minuti, poi trenta, venticinque, poi di nuovo cinque, e ancora altri dieci. A fronte di giornate intere di colloqui captati. La parte concessa all’avvocato è meno dell’un per cento dell’intera mole di conversazioni acquisite. Mi vuoi dire dove hai messo il restante novantanove per cento?
Giuseppe Milicia sa bene che, nella cassetta degli attrezzi di qualunque avvocato penalista, ci sono principi che coincidono con regole di sopravvivenza. Una di queste recita così: quando ti tolgono l’ossigeno, tu cerca di respirare da qualunque spiraglio attraverso cui ancora passi un residuo d’aria. Quello spiraglio sono le prime informative di polizia, impiegate dal pm per giustificare la proroga delle intercettazioni. Che per legge devono essere autorizzate dal gip ogni venti giorni. Per ciascuna proroga c’è un faldone di conversazioni registrate nelle tre settimane precedenti. Ma soprattutto c’è una prima selezione di rilevanza che la polizia giudiziaria ha fatto, ascoltando quei dialoghi captati.
L’avvocato Milicia ne chiede copia al pm. In fondo si tratta di materiali che, pur non essendo nell’ordinanza, hanno concorso indirettamente a formare l’atto d’accusa. Risposta: non possiamo darteli, puoi venirli ad ascoltare e chiederne la trascrizione dei soli che ritieni rilevanti. E’ una cautela imposta dalla riforma del guardasigilli Orlando nel 2017, per impedire che intercettazioni non pertinenti all’indagine finiscano sui giornali. Il retropensiero di questo divieto è che a darle ai giornalisti siano gli avvocati, e quindi si rende la loro acquisizione una caccia al tesoro o, come già detto, la caccia all’ago nel pagliaio. Perché per ascoltare tre anni di intercettazioni dovresti disporre dello stesso numero di brigadieri e marescialli con cui la polizia giudiziaria le ha trascritte. E se pure li avessi, dovresti scaricarne il costo sul tuo cliente. Con l’effetto che solo gli imputati più benestanti potranno pagare una controverifica tanto onerosa. Chiunque sia andato in una sala d’ascolto di procura ha pensato almeno una volta che l’organizzazione del servizio sia fatta apposta per impedirti di lavorare. L’attività di intercettazioni è divisa per sessioni, a ogni sessione corrisponde una giornata di ascolti, frazionata in una quantità spesso gigantesca di registrazioni di cinque minuti ciascuna. Delle quali tu potrai ascoltare solo quelle che il pm ti concede, pilotandoti verso un percorso obbligato nella memoria dell’archivio digitale.
La mattina in cui accade l’imponderabile, Emma Di Maio, praticante nello studio Milicia, è da circa tre ore a combattere con il terminale della procura, nel tentativo di scorgere qualcosa di nuovo e di utile tra le poche intercettazioni allegate alle tante richieste di proroga del Troyan, avanzate dal pm al gip in tre anni di indagine. E’ quasi convinta che stavolta la sua caccia sia inutile, poiché l’intera mole di ascolti è stata frazionata e ritagliata a misura dell’ipotesi di accusa. Ci sono pezzi di conversazioni espunti da colloqui più lunghi, le cui parti mancanti però non si trovano tra quei pochi atti rimasti disponibili, anzi – come si dice in gergo – ostensibili. Tutto quello che potrebbe aiutare la difesa sta nel fascicolo segreto e invisibile alle parti. Non sarà facile spiegarlo all’avvocato, ma pure in un modo o nell’altro bisognerà farlo.
Talvolta il fatalismo, con cui ti abbandoni all’evidenza della realtà, ti porta vicino alla verità delle cose più di quanto riesca una caccia pertinace. Emma clicca di qua e di là senza più convinzione, per quella pura curiosità inerziale che, dopo ore davanti al pc, somiglia a una sorta di dipendenza tecnologica. Ed è a questo punto che le sembra di scorgere sul video un’icona sconosciuta. Dopo averla selezionata le si apre davanti, come in un prodigio, il mondo fino a ieri solo intuito: l’archivio di tutte le trascrizioni secretate, con i brogliacci della polizia giudiziaria, la sintesi dei contenuti e una valutazione di rilevanza per ciascuno dei progressivi trascritti. E’ la memoria off limits di tre anni di ascolti. Un baco del programma di archiviazione digitale l’ha portata nella cassaforte dell’inchiesta. E’ una svolta. Perché dal sommario, annotato dalla polizia giudiziaria su ciascuno dei brani trascritti, si evince chiaramente che si tratta di conversazioni pertinenti all’indagine e, in molti casi, considerate rilevanti. Per quale motivo, allora, sono state escluse dal pm?
E’ la domanda che l’avvocato Milicia rivolge al gip in una catena di eccezioni, allegando alcune fotografie dei brogliacci rinvenuti, eseguite di soppiatto con lo smartphone dalla sua giovane praticante. Non è vero che le intercettazioni secretate riguardino fatti e persone diverse dagli imputati. Non è vero che siano irrilevanti nell’inchiesta in corso. Il pm ha occultato alla difesa una quantità di intercettazioni che consentono di contestualizzare quelle da lui allegate, dando per esempio a quella cena, considerata un vertice di mafia, una connotazione opposta. Era un incontro conviviale tra amici.
Adesso il gip non potrà più chiudere gli occhi. Perché sì, il pm sarà pure il padrone delle indagini preliminari, ma non al punto da far sparire i brani che la polizia giudiziaria valuta rilevanti. L’avvocato Milicia lo mette per iscritto e lo ripete in udienza: badate bene, così si attenta alla regolarità del processo, si violano i diritti di difesa e si produce una nullità di tutti gli atti dell’indagine. Perché questo contesterà lui in giudizio, se non gli sarà messo a disposizione l’intero materiale occultato. Ma talvolta le decisioni del gip hanno un’algida indifferenza alla logica che li fa atti di pura certificazione burocratica. Il pm, scrive il magistrato, rigettando per l’ennesima volta le eccezioni dell’avvocato, ha un potere insindacabile di separazione dei fascicoli. E chiude la partita, assegnando il primo round all’accusa.Milicia non è uno che demorde. Almeno adesso ha la certezza che fuori dall’indagine esistono montagne di intercettazioni che sarebbero manna per qualunque difesa. La sua praticante le ha viste tutte, ne ha fotografate alcune. Se la polizia giudiziaria le ha giudicate rilevanti, e il pm le ha escluse dall’indagine, è legittimo sospettare che saranno utili a provare l’innocenza dell’imputato. E qui, mentre inizia il giudizio di primo grado, l’imputato entra in scena. Antonino Creazzo è il perno dell’inchiesta. Secondo la procura ha chiesto alle cosche voti per la campagna elettorale del fratello, in cambio ha aggiustato il processo di un boss. Ha scelto l’avvocato Giuseppe Milicia dopo averlo visto duellare con il pm per un altro cliente. Dagli arresti domiciliari, in cui si trova ormai da mesi, fa istanza al giudice per consultare personalmente le intercettazioni che lo riguardano. E’ un suo diritto. Il giudice glielo riconoscerà, consentendogli di lasciare il domicilio coatto per recarsi nella sala d’ascolto della procura. E ogni mattina, con una puntualità di chi non ha altre priorità che quelle di difendere la sua libertà e la sua reputazione, si presenta al tribunale di Reggio e vi resta per ore nell’ascolto di audio che raccontano i suoi ultimi tre anni di vita.
Antonino Creazzo è stato lasciato dalla moglie la mattina stessa che l’hanno prelevato per notificargli in commissariato l’ordine di cattura. Quando lui è uscito con i poliziotti, Ivana Fava è andata dal suocero e gli ha detto: “Io non vedrò più tuo figlio, non posso stare con un mafioso”. In pochi minuti un quadro familiare e sociale fatto di intimità, responsabilità genitoriali, amicizie lunghe una vita è venuto giù come un’architettura di carta terremotata da uno tsunami giudiziario. Un blitz di polizia ha ridefinito un paesaggio umano, tracciando un muro altissimo per separare nettamente ciò che fino a ieri si teneva insieme in un puzzle di mille sfumature di grigio. Improvvisamente tutto si racconta in bianco e nero. Antimafia o mafia, non ci sono distinzioni, emozioni, legami che possano resistere alla forza d’urto di un’inchiesta simile. Il tenente dei carabinieri Ivana Fava consegnerà la sua versione a un’intervista sul Corriere della Sera, a partire dalla foto che la ritrae sorridente con il marito e i coniugi Alvaro. “Quella cena – racconta - me la sono trovata organizzata, ed è stata motivo di discussione con mio marito. Tante volte mi sono arrabbiata con lui per certe sue frequentazioni, se ci sono le intercettazioni in casa, sentiranno anche le mie urla”.
Domenico Alvaro è stato scarcerato due anni prima, dopo una condanna a sette anni per associazione mafiosa. E’ in libertà vigilata e il suo amico d’infanzia, Antonino Creazzo, si è dato da fare per dargli una mano a trovare un lavoro, magari lontano da Sant’Eufemia dove tutto è iniziato e dove niente sembra voler finire. Nel prima, che il terremoto giudiziario ha cancellato, l’interessamento di un consulente del lavoro per il recupero di un detenuto di mafia è ancora una pratica della democrazia. La loro antica amicizia è un valore di comunità. Le discussioni sulle elezioni che stanno per arrivare e la richiesta di un sostegno per il fratello candidato alla Regione sono una forma di passione civile, ancorché declinata nella forma familiare che la politica assume da queste parti. Quel sostegno Creazzo l’ha chiesto ad Alvaro, e Alvaro lo ha rifiutato, consapevole che anche l’aiuto più innocente si presta, per un recidivo, a una lettura criminogena. “Lascia stare, Nino – gli dice -, se ti aiuto, danno otto anni a te e dodici a me”. Nel prima, questa rete di relazioni vischiose sta ancora in piedi al confine della legalità, in una frontiera dove ogni favore e ogni conflitto si prestano a una doppia lettura. Come la richiesta di Creazzo all’amico perché intervenga per far cessare l’usura nei confronti di un imprenditore sul lastrico. Un obiettivo per cui basta la parola di una famiglia che conta, come quella degli Alvaro. Eppure allo stesso modo la prova di riconoscere un’autorità diversa e opposta a quella dello Stato. Nel prima, questi sconfinamenti oltre la linea che divide il lecito dall’illecito sono adattamenti di un sistema sociale che cambia a scossoni e più lentamente di quanto dovrebbe. Nel dopo, tutte le sfumature di grigio cadono. Nel dopo, il lavoro legale è un paravento, l’amicizia una oscura complicità, perfino la famiglia è un intreccio malsano da spezzare. Tutti i vecchi istituti della quotidianità assumono di colpo una veste sinistra. L’effetto di un’inchiesta di mafia così dirompente è un deserto di legami. Nel quale Ivana Fava s’inoltra per paura e per rabbia. Lei, la figlia di una vittima di mafia, lei che indossa la divisa della legalità, trascinata nel fango che insozza, insieme con il suo presente, la memoria del suo dolore. La decisione di azzerare su due piedi la sua famiglia forse le è stata suggerita, forse l’ha assunta in un impeto di sdegno, forse l’è sembrato l’unico modo per salvarsi. Ma uno strappo così netto non le eviterà più tardi un avviso di garanzia per omessa denuncia. Era al corrente dei rapporti opachi del marito e aveva il dovere, in quanto pubblico ufficiale, di denunciarli. Il mattino che l’avvocato Milicia la vede comparire in aula, tra i testimoni dell’accusa, comprende che il limite oltre il quale un processo penale può diventare una guerra sta per essere varcato. E alza una trincea difensiva con tutti i mezzi che ha. “Ivana Fava non può deporre senza un avvocato – intima l’avvocato al pm -, se sono criminali le condotte del marito, la posizione della moglie è di piena condivisione”. Così l’accusa ritirerà la testimone.
Antonino Creazzo è già un uomo che ha perso quasi tutto ciò che aveva. Gli resta quello spicchio di libertà che gli arresti domiciliari offrono a un imputato in attesa di giudizio. Quello spicchio vale una strenua difesa. Così la sua frequentazione nella sala d’ascolto della procura diventa tanto costante e vitale per lui, quanto ingombrante per il personale di procura. Accade che un giorno un cancelliere gli dia un suggerimento che si rivelerà la chiave per ribaltare le sorti del processo: “Se fa una domanda al giudice del duplicato delle registrazioni – gli dice – gliele consegniamo tutte e può ascoltarle a casa”. Creazzo non se lo fa ripetere due volte. Quando lo racconta all’avvocato Milicia, questi resta di sasso. E’ una cosa inaudita, pensa. E’ dall’inizio del processo che lui chiede di poter avere le intercettazioni, e ha collezionato un pacco di rifiuti dal pm e dal gip. Ha insistito per avere quantomeno la copia dei brogliacci, con il sommario sintetico della polizia giudiziaria, per selezionare le parti che sembrano più interessanti. Niente da fare. E adesso un cancelliere le offre in dono all’imputato solo per toglierselo dai piedi. Sta per accadere ciò che nessun avvocato, per tignoso e fortunato che fosse, avrebbe potuto prevedere. Creazzo presenta la sua brava istanza, due righe, poche e semplici parole, come gli ha suggerito il cancelliere. E dopo alcuni giorni si vede consegnare una scatola piena di DVD. Troppo grande e troppo piena per essere solo la memoria delle sue conversazioni ammesse dal pm. Hanno sbagliato ancora una volta, ma stavolta il baco non sta nell’archivio digitale, sta negli uffici della procura. Perché in quei supporti elettronici c’è tutto, davvero tutto il materiale secretato, con i brogliacci sintetici per orientarsi e scegliere ciò che serve alla difesa. Un autogol così Milicia non poteva aspettarselo. Tra le tante conversazioni escluse dal pm ci sono i momenti cruciali dell’inchiesta e la possibilità di ricostruirla in modo opposto rispetto a quanto ha fatto il pm. Perché le cose non stanno come lui sostiene.
Tutto ruota attorno alla figura di un personaggio a dir poco eccentrico. Si chiama Domenico Laurendi e nella vita ha fatto molte cose. E’ imprenditore, anzitutto. Con la ricostruzione post terremoto dell’Umbria e dell’Aquila si è riempito le tasche di quattrini. E’ stato un politico locale, nei primi anni Duemila con i partitini del centrodestra. Ed è, secondo la procura, uno ‘ndranghetista, appassionato di riti iniziatici di affiliazione, per conto della famiglia Alvaro di Sant’Eufemia d’Aspromonte. L’ha scampata in un procedente processo, in cui il pm aveva chiesto per lui la condanna a vent’anni di reclusione. Ma ha una paura dannata di perdere in appello e finire in carcere. Perciò si agita. Cerca contatti con chi possa “raggiungere” i magistrati che devono giudicarlo, e “aggiustare” la sentenza.
La prova che, secondo la procura, inchioda Antonino Creazzo sta in tre colloqui privati di Laurendi tra il 2 e il 3 aprile del 2017. Il primo con un compare, Natale Lupoi, a cui l’imprenditore confida le sue paure di essere incastrato. Se non stiamo attenti, dice, qui “ci solettano” (“ci fanno le scarpe”). Ma aggiunge subito dopo di avere un amico che si è offerto di aiutarlo, e che dovrà incontrare nel pomeriggio dello stesso giorno. “Lui” può arrivare, secondo Laurendi, alla corte d’appello e scongiurare la condanna. “Lui”, secondo la procura, è Antonino Creazzo, fratello del consigliere regionale Domenico, per cui fa in quei mesi campagna elettorale, amico dell’imprenditore agricolo Domenico Alvaro, figura di riferimento del clan, a cui Laurendi appartiene. La prova di questo collegamento sta in un colloquio tra Laurendi e Creazzo, registrato il giorno dopo nello studio del consulente del lavoro. L’imprenditore chiede a Creazzo se può metterlo in contatto con un cancelliere della corte d’appello, che è lo zio di un praticante del suo studio. Creazzo tergiversa, gli racconta una bufala: guarda che questo ha avuto problemi, gli dice, e poi sta per essere trasferito dalla corte d’appello, non potrà aiutarti. Laurendi insiste, professa la sua innocenza ma anche la sua paura di essere condannato e finire in carcere. Creazzo prende tempo, s’impegna a metterlo in contatto con un suo avvocato, da una parte sembra voler corrispondere alla sua richiesta di interessamento, dall’altra vuole tirarsi da parte. Assume l’atteggiamento di chi non vuole scontentare il suo interlocutore, ma non vuole nella sostanza fare nulla per lui. E’ un difficile, e forse spericolato, equilibrismo da parte di un libero professionista che vive di relazioni pubbliche, in un contesto inquinato dalla pressione della criminalità organizzata.
Ma questa sorta di neutralità non basta ad Antonino Creazzo per sottrarsi all’accusa di essere un colluso. Perché pm e polizia giudiziaria collegano il suo tergiversare e la sua finta accondiscendenza con la confidenza che Laurendi ha fatto il giorno prima al suo compare, quando ha detto di dover incontrare uno che lo avrebbe aiutato ad aggiustare i processi. Quel qualcuno, dice la pm in dibattimento, è certamente Creazzo. E che la mediazione del consulente del lavoro sia andata a buon fine lo testimonia, secondo l’accusa, un’altra intercettazione. Tre settimane più tardi Laurendi incontra a Messina un sorvegliato speciale appartenente allo stesso clan, Cosimo Alvaro, e gli riferisce che il suo tentativo di addomesticare la corte sarebbe stato raggiunto nei confronti di almeno uno dei giudici. “Unu lu rrivai” - “Uno lo raggiunsi” -, dice all’amico. Le tre conversazioni di Laurendi sono per la procura la prova regina che inchioda Antonino Creazzo e il fratello, per il quale il consulente del lavoro sta facendo campagna elettorale, chiedendo voti tra l’altro al suo amico d’infanzia Domenico Alvaro, per la procura uno degli esponenti maggiori del clan. Una spregiudicatezza che sta per costargli cara.
Ma c’è qualcosa che non torna in questa ricostruzione. Perché nessuna nelle parole di Creazzo a Laurendi autorizza da sola a ritenere che il consulente abbia promesso di attivarsi per aggiustare i processi. Si può discutere, su un piano morale, se un procacciatore di voti non debba prendere le distanze da chi gli annuncia un proposito illecito, invece di preoccuparsi di accondiscendere. Ma nessuna promessa che configuri un patto politico mafioso può desumersi dalle sue parole. La procura ha fatto un sillogismo collegando il senso delle tre intercettazioni. Laurendi ha detto a un amico: incontrerò uno che mi aiuterà ad aggiustare i processi. L’incontro, se pure generico, è avvenuto. E tre settimane dopo Laurendi stesso ha confermato che un giudice è stato agganciato. Due + due + due fa sei. Ma gli anni di carcere chiesti per Antonino Creazzo saranno tre volte tanti: diciotto. Sedici ne merita invece, secondo la procura, il fratello politico, arrestato un mese dopo essere stato eletto in consiglio regionale. Quanto agli uomini del clan, i magistrati andranno ancora più duro: venti anni per Laurendi e, addirittura, trenta per Alvaro, in quanto recidivo.
Talvolta un dettaglio può scardinare un intero castello di accuse. Il dettaglio l’avvocato Milicia lo individua nelle parole di Laurendi al compare, quando dice: oggi incontrerò uno che mi aiuterà. L’incontro con Creazzo è avvenuto, ma solo il giorno successivo. E se Laurendi non avesse parlato di lui, ma piuttosto di altri? L’intercettazione del colloquio viene affidata a un perito di parte e dalla nuova trascrizione emerge una parola, parzialmente coperta dal rumore di fondo, che il presunto boss pero ha pronunciato: incontrerò “u dottore”, ha detto. “U dottore” da queste parti è anzitutto il medico. E di medici Laurendi ne ha incontrati due. Uno il giorno prima del colloquio. E l’altro proprio nel pomeriggio indicato per l’appuntamento con il misterioso faccendiere che si sarebbe offerto di aiutarlo. Basta spulciare con pazienza nell’enorme pagliaio delle intercettazioni, secretate dal pm, e per errore di un cancelliere consegnate all’imputato, e il colloquio decisivo spunta. Laurendi lo ha tenuto con Giuseppe Antonio Galletta, già coinvolto in un filone di indagini per scambio politico mafioso con il senatore di Forza Italia Marco Siclari. A Galletta parla del suo caso, chiede aiuto, ricevendo dal medico assicurazioni per un interessamento personale. Non si tratta, stavolta, si rassicurazioni generiche. Si fanno i nomi dei magistrati che hanno nelle mani la sorte dell’imprenditore boss e Galletta si offre a fare da intermediario. Di più, quando Laurendi torna a casa, racconta del colloquio alla sua compagna e l’orecchio del Troyan registra ogni dettaglio delle due conversazioni. Dunque, è Galletta l’uomo misterioso. Ma perché le due intercettazioni restano nell’archivio segreto e invece la procura esibisce solo quella del giorno dopo tra Laurendi e Creazzo, accreditando l’ipotesi che sia il consulente colui che consentirà di raggiungere i giudici? Perché l’inchiesta dribbla il medico faccendiere e punta dritta contro Creazzo e il fratello politico?
Sono domande inquietanti, a cui si aggiunge una scoperta clamorosa. Nel pomeriggio dello stesso giorno Laurendi ha incontrato anche Creazzo, che poi rivedrà il giorno dopo nello studio. Ma nel primo colloquio intercettato di tutto si parla, tranne che del caso giudiziario da aggiustare. E’ un’ulteriore conferma che il mediatore tra il boss e i giudici sia Galletta e non Creazzo. Ma la pm dimostra di aver ignorato il valore di questa prova, anzi di averla secretata in un fascicolo impermeabile alle parti, che solo per caso si è reso conoscibile. Eppure nei brogliacci della polizia giudiziaria, di cui l’avvocato Milicia ormai dispone, quelle conversazioni sono indicate come rilevanti.
La denuncia dell’avvocato in aula è un tuono che fa vibrare come un diapason le corde del processo. L’intera inchiesta poggia su un falso, dice Giuseppe Milicia. Se Antonino Creazzo non è l’uomo avvicinato da Laurendi per aggiustare i processi, l’intercettazione dei suoi colloqui per due anni con il Troyan è stata autorizzata indebitamente. Di più, l’occultamento delle prove che scagionano Creazzo è doppiamente grave. Perché erano pertinenti all’indagine e di grande rilevanza. E perché sono state nascoste all’imputato, violando irreparabilmente il suo diritto di difendersi. Solo un errore del cancelliere ha smascherato l’inganno.
Ma l’affondo dell’avvocato non si ferma qui. Perché Milicia ormai sa che questo processo somiglia a una partita di calcio giocata in nove contro undici. La parità d’armi tra accusa e difesa è solo uno slogan, e insieme un insulto alla Costituzione. Giocare all’attacco diventa l’unico modo per non soccombere alla forza di un potere inquirente, e anche giudicante per tutte le indagini preliminari, che ha messo sul tavolo solo le carte che gli conveniva scoprire. In quelle conversazioni secretate, denuncia l’avvocato, ci sono notizie di reato, e nomi di persone chiamate in correità che l’indagine ha ignorato, congelandole in un fascicolo riservato, mentre s’indirizzava verso innocenti assunti a bersaglio. La disperata caccia di Laurendi per condizionare una corte d’appello ha coinvolto molti soggetti che si sono prestati ad aiutarlo, forse lo hanno fatto e forse no, forse gli hanno spillato denaro e altri favori. Ma nessuno di costoro è indagato. Perché l’obiettivo dell’indagine erano i Creazzo. E solo loro. Sono parole che incendiano l’aula, trasformando un braccio di ferro in una guerra senza risparmio di colpi.
Quando il conflitto nel processo si arroventa a questo punto, si ha la sensazione che la stessa sorte degli imputati rischi di passare in secondo piano. C’è un avvocato che ha sfidato la procura, ha messo in discussione la sua indipendenza e il rispetto delle regole. E la procura scende in campo con tutto il suo carico politico per difendere l’istituzione offesa. Non sarà Giulia Pantano a condurre la requisitoria finale, ma Stefano Musolino, procuratore aggiunto e potente segretario nazionale di Magistratura democratica, la storica corrente di sinistra delle toghe. Il suo atto d’accusa rilancia: “Signori io vi sfido” – dice rivolgendosi agli imputati e ai loro legali –, se pensate che “questo ufficio di procura chissà che cosa ha fatto”, “vi sfido non solo sul piano processuale, ma vi sfido a denunciare condotte disciplinariamente rilevanti, perché questo ufficio sconti non ne vuole. Non siamo un potere dello Stato che intende autoassolversi, se qualcuno ha sbagliato non abbiamo difficoltà a dire che si assumerà le responsabilità, però non si può arrivare alla conclusione di questo processo con dubbi sul modo in cui l’ufficio lo ha gestito… Non accettiamo forme di ricatto”.
Al di là del braccio di ferro psicologico che questo scambio di battute scatena, la procura difende il primato di poteri che ha nel processo: la secretazione delle intercettazioni, sostiene Musolino, è giustificata dal fatto che s’indaga per altri reati, cioè sull’ipotesi di corruzione in atti giudiziari nei confronti dei giudici di Reggio. Una spiegazione che Milicia non può accettare. Perché se quelle registrazioni contenevano notizie di reato a carico di magistrati, dovevano essere immediatamente inviate alla procura di Catanzaro, per competenza. E invece lì sono arrivate solo dopo che l’avvocato ha denunciato il caso in aula. “E’ accaduta una cosa inaudita – ribatte Giuseppe Milicia – del gigantesco materiale raccolto per anni con il Troyan è stata messa a disposizione degli indagati solo una parte infinitesimale. E adesso, con afflato paterno, il pubblico ministero ci dice di tranquillizzarci, poiché lui non ha fatto nient’altro che scartare il superfluo. La realtà è completamente diversa. La realtà è un percorso di menzogne, menzogne dette nel processo, ci mancherebbe, ma nel momento in cui ci si erge a paladini dell’etica e della morale, allora chiamiamo le cose con il loro nome. Il pubblico ministero ha perso completamente il controllo dell’attività di intercettazione nella sua fase esecutiva, perché altrimenti mai sarebbero accadute le cose abominevoli che in quest’aula ho denunciato”.
Ma l’avvocato non si contenta di contestare le ragioni dell’occultamento delle prove. Rispedisce al mittente la sfida a denunciare la procura, rivoltagli da Musolino: “Ma signor Pubblico Ministero – dice con beffarda ironia - dove era lei, dov’era il suo ufficio quando la difesa denunciava fatti, circostanze, nomi? Noi non facciamo gli esposti, noi non facciamo l’anticamera nelle Procure della Repubblica, noi il processo lo facciamo qui. Ma viva Dio, voi avete doveri di questo genere, appartenendo all’ordine giudiziario. La Procura della Repubblica dice a un difensore che non accetterà ricatti? Siete voi istituzionalmente titolari del potere di ricatto”.
Il finale di questo romanzo noir della giustizia italiana delude le attese della procura. Il detto di Bertolt Brecht – c’è un giudice a Berlino – vale anche per Reggio Calabria. Perché il collegio del tribunale ha capito fino in fondo che cosa è accaduto e ha scelto di stare rigorosamente ai fatti e ai codici. Condannando i mafiosi di un’indagine di mafia, e assolvendo il contesto, grigio quanto si vuole ma non compromesso, che l’indagine voleva tirare dentro. Perché la morale è la morale. Ma il diritto è un’altra cosa. Assolto Antonino Creazzo, assolto il fratello politico, Domenico. Ma assolto anche Domenico Alvaro, l’amico di Creazzo con una condanna per mafia alle spalle. Il bilancio del processo è un parziale fallimento inquisitorio: su cinquanta imputati, trenta assolti e ventuno condannati, pari al 42 per cento, in linea con le performance della magistratura calabrese.
La sentenza ha rimesso a fuoco il quadro sociale complesso, con tutte le sue sfumature di grigio, che l’indagine aveva ridotto a una rappresentazione binaria in bianco o in nero. E ha sconfessato l’idea, sottesa alla logica investigativa, di una mafiosità come contagio sociale, a cui l’azione penale oppone una terapia di sterilizzazione. Secondo quest’idea il contagiato, in quanto portatore del virus, è contagioso in tutte le attività che compie, da quelle propriamente criminali alle sue più innocue azioni e relazioni, come parlare con un amico d’infanzia, adempiere agli obblighi familiari, cercare un lavoro, meno che mai instaurare relazioni politiche. Accade così che nello stesso spazio vitale di un piccolo comune della Calabria convivano soggetti sani e altri portatori del virus, la cui patogenicità è certificata negli archivi di polizia. Gli uni e gli altri non possono e non devono mai entrare in relazione. Quando un contatto si realizza, e supera quella strettissima soglia di tolleranza ritenuta accettabile, interviene l’indagine penale a isolare i contagiati con una strategia che potremmo definire virologica. Il cui effetto collaterale è però quello di inquinare con il sospetto ogni relazione umana e produrre una turbativa civile che è, talvolta, pari al male che si propone di combattere. Anche perché una simile strategia è destinata ad aumentare, anziché ridurre, l’area del contagio. E soprattutto a fare terra bruciata attorno ai contagiati, impedendo loro qualunque tentativo di rientrare in società, e spingendoli verso un’irredimibilità che li condanna a delinquere e che trasmette il virus tra le generazioni. Così l’Antimafia di polizia celebra, più o meno inconsapevolmente, la sua alleanza con la mafia.
Giuseppe Milicia però non è un sociologo, ma un avvocato. E’ abituato a stare ai fatti del processo. E si chiede ancora come si sia potuta mettere in piedi una verità investigativa fittizia, costruendola come un puzzle a cui si decide di togliere alcuni pezzi e di adattare quelli che restano a un disegno precostituito. La risposta che si dà, al netto della buona fede degli inquirenti, mai in discussione, è che la tecnica in questa inchiesta sia scappata di mano al governo della ragione. Il Troyan usato à gogo è un insulto a quel criterio di proporzione che i principi costituzionali prescrivono ai mezzi di indagine. Non solo per la quantità immane di intercettazioni che raccoglie, e che, oltre una certa soglia, rende vana ogni possibilità umana di ricostruzione e di analisi. Ma soprattutto perché, sezionando le relazioni sociali al loro livello più profondo, finisce per istruire un processo alle intenzioni e alle emozioni, difficile da ricondurre a fattispecie di reato. Soprattutto in assenza di riscontri fattuali che, in queste indagini di sole intercettazioni, mancano del tutto. Si realizza così, per via tecnocratica, un’anticipazione di tutela che porta il diritto penale lontano dalla cornice liberale di verifica di un fatto illecito. E lo sospinge in una funzione di analisi e controllo sociale, in cui il paradigma della colpevolezza, cioè dell’accertamento di un reato, cede a quello della pericolosità, che ha al centro l’indagato e che viene dedotta dagli indizi, dai precedenti, dalle congetture. Questo è il diritto di polizia, verso cui il grande fratello investigativo ha condotto la democrazia italiana.
Quel diritto è uno strumento potentissimo nelle mani di una magistratura che lo indirizza verso il bersaglio di turno. Sbaglierebbe chi pensasse che un’indagine a senso unico, come quella condotta dalla procura di Reggio, sia stata consapevolmente guidata verso gli esponenti del nuovo centrodestra per motivi di stretta faziosità politica. In quanto potere politico supplente, la magistratura oggi è meno politicizzata di ieri, anche quando veste la casacca sindacale di una corrente storicamente di sinistra. La logica che governa le sue scelte è quella di contrastare chiunque eserciti, magari attraverso l’esercizio del voto, un controllo sociale disfunzionale rispetto a quello che la magistratura stessa si sente legittimata a esercitare in posizione sovraordinata rispetto alla politica. Non è più un conflitto ideologico a condizionare l’azione penale, ma un puro conflitto tra poteri. La politica, soprattutto quella che governa, è un bersaglio prescelto perché la prova della sua corruzione serve a legittimare la supremazia del potere magistratuale nel controllo sociale. A quest’obiettivo concorre quell’attività di umiliazione pubblica – in gergo anglosassone si definisce shaming – che si realizza attraverso la diffusione delle intercettazioni, le sole capaci di provare, al netto di qualunque responsabilità penale, la pusillanimità di chi amministra la cosa pubblica.
A Sant’Eufemia di Aspromonte questo piano è fallito? L’avvocato Milicia vorrebbe potersi rispondere di sì. Ma sa che la sua sarebbe un’illusione. Sa che ha vinto una mera battaglia processuale, ma ha perduto una guerra civile. Poiché il risultato dell’indagine non sta nella sentenza, che assolve gli imputati dopo averli arrestati, delegittimati politicamente, etichettati con il marchio isolante del sospetto. Il risultato è nella stessa azione penale, e quel risultato è ampiamente raggiunto. E sa anche che la procura impugnerà le assoluzioni, non perché pensi di ribaltarle in appello, ma perché non sorga dubbio su chi abbia la titolarità del controllo sociale. Sa, ancora, che, nella logica corporativa che regola il sistema, un’indagine fallimentare come questa sarà una medaglietta da appuntare al petto e su cui costruire la carriera dei magistrati che l’hanno condotta. Per questo l’avvocato Giuseppe Milicia si è circondato di un gruppo di giovani praticanti, e guardando l’ottimismo e la passione con cui s’immergono nelle profondità del diritto s’è convinto che loro, certamente, saranno capaci di costruire un Paese diverso dal suo.