Letture
Delle pene e del loro scopo. Idee per non cadere nel populismo giudiziario
Esce in questi giorni dal Mulino un saggio di Giovanni Fiandaca, insigne studioso di diritto penale, dal titolo "Punizione" (184 pp., 14 euro), che permette anche ai non specialisti di chiarirsi le idee su argomenti cruciali del vivere civile. Un saggio quantomai attuale
La battuta di Francesco, “chi sono io per giudicare?”, in fondo ha avuto successo perché, a un livello popolare, individua un dubbio che da tempo attanaglia anche i piani alti della cultura, filosofia e diritto, e del potere costituito: chi può giudicare, e di conseguenza stabilire una punizione, una pena, per chi trasgredisce una norma? E quale norma, e quale pena? Il concetto di “punizione” è connaturato alla storia delle civiltà, ma la riflessione su cosa sia, a cosa serva, fa parte dei grandi dubbi del nostro tempo. Segnato appunto da “una progressiva delegittimazione dei tipi tradizionali di pena”. Allo stesso tempo, però, a livello sociale e politico l’idea del punire in modo “retributivo” o anche puramente “afflittivo” è tornata potente. Il populismo penale è una tremenda “passione contemporanea”. Martha Nussbaum ha scritto: “Pensiamo che infliggere dolore nel presente aggiusti il passato”. Anche in questo, il nostro presente è bipolare.
Esce in questi giorni dal Mulino un saggio di Giovanni Fiandaca, insigne studioso di diritto penale, dal titolo “Punizione” (184 pp., 14 euro), che permette anche ai non specialisti di chiarirsi le idee su argomenti cruciali del vivere civile. Un excursus breve – non accademico ma divulgativo – su una parola decisiva e contraddittoria. L’impianto è teorico, ma proprio questo permette di distanziare le passioni e di riflettere. Il libro si concentra ovviamente sulla pena giudiziale, pur con qualche accenno ad altri ambiti come l’educazione. Che utilità reale ha, e prima ancora quale legittimità? Questione ingarbugliata, se già Nietzsche notava che “il concetto di pena non presenta più, in uno stato molto tardo della civiltà (per esempio nell’Europa odierna) un unico significato” e anzi “è impossibile a definirsi”. Fiandaca affronta innanzitutto le varie nozioni di pena: come “retribuzione”, come “prevenzione” rispetto ad altri possibili delitti che minerebbero la convivenza (l’idea, un po’ distopica, era già di Platone), o variamente modulata come “conseguenza” necessaria e inevitabile di un “male” commesso. Spiega l’autore le idee e la loro evoluzione, concentrandosi poi sulla pena “nell’orizzonte della giustizia penale contemporanea” e sulle finalità rieducativa e anche riparative. Su questi aspetti il progresso di leggi e teorie è costante, ma il giurista ne coglie anche i limiti pratici, a volte utopici. Allo stesso tempo, la realtà e certe pulsioni politiche sembrano averci riportati alla punizione come pura afflizione. O addirittura a quel medievale “splendore dei supplizi” di cui parlava Foucault e di cui le catene di Ilaria Salis sono emblema, per non parlare di tutti i “buttare la chiave” del nostro populismo.
Del dibattito attuale fa parte ovviamente anche il carcere (Fiandaca è stato Garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, esperienza non estranea alle sue riflessioni). Non lo convincono, né tenta di convincere, le impostazioni eccessivamente teoriche. La punizione giudiziale continua a rappresentare una “polisemia” in cui si integrano vari aspetti, dalla retribuzione alla “neutralizzazione della colpevolezza” ai percorsi riabilitativi difficili da separare. Ma l’aspetto interessante è l’evoluzione da una concezione di puro controllo esercitato dalla pena – il tradizionale patto sociale si potrebbe sintetizzare: sicurezza cambio di ottemperanza alle leggi – verso un modello rieducativo che ormai è presente in tutte le legislazioni e anche nelle costituzioni (i nostri art. 3 e 27). Inoltre c’è il tema della pena come atto di prevenzione, su cui si registra però una certa insoddisfazione teorica e pratica. L’ultima parte del saggio si concentra invece sul concetto, più recente, di “riparazione”. Può esistere una pena che non voglia essere, come nella tradizione, solo “un male contrapposto a un altro male”? Possono esistere percorsi o meccanismi in grado di “riparare” il danno causato? Fiandaca segnala limiti pratici e teorici, ma non manca di riconoscerne l’importanza nel far evolvere la riflessione e la prassi. Infatti il volume si chiude parlando della “giustizia ripartiva” entrata, seppur e con troppa “timidezza”, nel nostro ordinamento con la riforma Cartabia. Fiandaca indica questi percorsi come segnali di una mai quieta evoluzione di un tema che resta ccruciale, per chi non voglia tornare allo “splendore del supplizio”.