la sentenza
Davigo condannato anche in appello: l'unico dossieraggio per ora è il suo
L'ex pm di Mani pulite si fece consegnare verbali coperti da segreto e ne rivelò il contenuto a una decina di soggetti, danneggiando la reputazione del consigliere Sebastiano Ardita e portando al suo isolamento al Csm
Se per dossieraggio si intende raccogliere notizie coperte da segreto su qualcuno e poi utilizzarle a danno di quest’ultimo, bisogna dire che l’unico a essere stato condannato in questi giorni per dossieraggio è Piercamillo Davigo. L’ex magistrato, pm simbolo di Mani pulite, è infatti stato condannato dalla Corte d’appello di Brescia a un anno e tre mesi di reclusione per rivelazione di segreto d’ufficio nella vicenda dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. La stessa pena era stata stabilita dal tribunale in primo grado lo scorso giugno, compreso il versamento di 20 mila euro alla parte civile Sebastiano Ardita.
Nel marzo 2020 Davigo – all’epoca consigliere del Csm – convinse il pm milanese Paolo Storari a consegnargli i verbali di Amara sulla fantomatica loggia Ungheria (in seguito rivelatasi inesistente) e poi ne rivelò il contenuto in maniera informale a una decina di soggetti, tra cui il pg della Cassazione Giovanni Salvi, il vicepresidente del Csm David Ermini, cinque componenti del Csm, il senatore Nicola Morra, la sua segretaria e la sua assistente giuridica.
Storari si era mosso con l’intenzione di tutelarsi dall’inerzia a suo dire praticata dai vertici della procura attorno all’inchiesta. Nel corso del processo Davigo ha riferito di aver detto a Storari che, essendo all’epoca consigliere del Csm, nei suoi confronti “non era opponibile il segreto” e che non poteva inviare al Csm un plico riservato, come richiedevano le circolari del Csm, perché dopo il caso Palamara ci poteva essere una nuova fuga di notizie. “Pensavo di poter riferire io per far tornare la vicenda nel binario della legalità”, ha detto Davigo, sentendosi un po’ come Batman.
Davigo, però, andò ben oltre i suoi stessi propositi. Dopo aver ricevuto i verbali da Storari, l’ex pm di Mani pulite ne rivelò infatti il contenuto a cinque consiglieri del Csm e a un senatore (Nicola Morra). “Ad alcuni dissi che il nome di Ardita (allora membro del Csm, ndr) era tra quelli inseriti nella presunta loggia Ungheria. Ritenevo di doverlo fare”, ha detto Davigo nel processo, ammettendo quindi di aver usato dei verbali segreti contenenti dichiarazioni non ancora verificate per delegittimare il suo ex amico e compagno di corrente Ardita. Non solo. Davigo vagliò anche l’affidabilità dello stesso Amara. A raccontarlo è stato il consigliere Giuseppe Cascini lo scorso novembre: “Mi ero occupato di un’indagine per la procura di Roma in cui compariva anche l’avvocato Amara. Davigo voleva sapere se fosse affidabile o meno”.
Le rivelazioni di Davigo, come evidenziato anche nella sentenza di primo grado, ebbero come effetto proprio quello di danneggiare la reputazione di Ardita e isolarlo al Consiglio superiore della magistratura.
Il procuratore generale di Brescia, Enrico Ceravone, aveva chiesto la conferma della condanna nei confronti di Davigo sottolineando che, in caso di assoluzione, si sarebbe dovuta accettare la trasformazione del Csm in una centrale di dossieraggio: “Diciamo pure che la si pensi diversamente, e cioè che ogni singolo consigliere possa attivarsi per ricevere notizie riservate o addirittura di atti secretati. All’indomani ci si ritroverebbe in una sorta di futuro distopico. Si dovrebbe affermare il potere di ogni pm di svelare notizie o addirittura consegnare atti a un qualsiasi consigliere, sia esso togato o non togato, che si assumerebbe dunque impropriamente il compito di veicolare informalmente al di fuori dei previsti canali istituzionali notizie altamente riservate. Con il rischio di trasformare il Csm da strumento di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura in un luogo di immediata amplificazione di qualsiasi pur vaga notizia di reato, con un allargamento esponenziale dei possibili destinatari dei segreti istruttori”.
Per la prima volta in maniera chiara, insomma, la pubblica accusa aveva posto l’attenzione su ciò che c’è davvero in ballo nella vicenda Davigo, cioè non tanto (e solo) la liceità della condotta dell’ex pm, quanto l’equilibrio tra le istituzioni del nostro paese. Come ben evidenziato da Ceravone, infatti, nel caso in cui il comportamento di Davigo venisse ritenuto lecito, vorrebbe dire che ciascun consigliere del Csm potrebbe legittimamente ricevere atti segreti di indagine da qualsiasi pm e usare queste informazioni riservate per regolare i conti con le persone a lui non gradite, finendo pure per condizionare il funzionamento di un organo di rilevanza costituzionale.
Parliamo al presente perché il “caso Davigo” è ancora aperto: se l’ex pm si è astenuto dal rilasciare dichiarazioni, i suoi legali hanno già annunciato il ricorso in Cassazione, e questo nonostante ovviamente non siano ancora state depositate le motivazioni della sentenza d’appello. E pensare che fino all’altro ieri proprio Davigo se la prendeva con le impugnazioni pretestuose, causa di lentezza della giustizia.