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in appello

Il codice penale vale più del codice Da Vigo

Luciano Capone

Nel processo a Brescia sulla divulgazione dei verbali segreti sulla "loggia Ungheria", confermata in secondo grado la condanna a Piercamillo Davigo. L’ex capo dell’Anm ha provato a dimostrare che il suo giustizialismo vale più della legge. Gli è andata male

Nel processo d’appello di Piercamillo Davigo, conclusosi con la condanna  a 1 anno e 3 mesi che conferma quella di primo grado, c’è un episodio marginale rispetto all’accusa di aver spiattellato notizie coperte da segreto ma molto rivelatore. Una bugia evidenziata da Fabio Repici, avvocato del magistrato Sebastiano Ardita, parte lesa per la divulgazione dei verbali  sulla fantomatica loggia Ungheria. Davigo aveva infatti dichiarato di non essere più in possesso della memoria del telefono, e in particolare delle chat Whatsapp. Una cosa insolitamente frequente in questo processo, visto che anche i testimoni Giovanni Salvi e Francesco Greco, rispettivamente ex procuratore generale della Cassazione ed ex procuratore di Milano, hanno perso il cellulare.

 

A un certo punto, però,  il teste Sergio Santoro, un magistrato che nei verbali di Amara era indicato come Ardita quale membro della fantomatica loggia, ha dichiarato che Davigo ancora a settembre 2020 (quindi consapevole del contenuto dei verbali) era stato a cena a casa sua. La difesa dell’ex pm di Mani pulite, per smentire questa versione, ha depositato delle chat Whatsapp: secondo i legali di Davigo, quelle chat non erano state estratte dalla memoria del suo telefono, ma da quello di un’amica comune di Davigo e Santoro, la giudice Ciafrone.

 

Il problema, però, è che nella chat con Santoro compariva l’immagine profilo di Santoro con il suo nome e nella chat con Ciafrone il suo profilo con il suo nome. Quindi le conversazioni non possono essere state estratte dai rispettivi telefoni, ma solo da quello di un terzo: Davigo. “L’imputato ha mentito al tribunale nel dire, durante il suo esame, che in quel momento e da tempo non avesse la disponibilità delle sue vecchie chat di Whatsapp”, è la tesi dell’avvocato Repici.  Evidentemente nella memoria del  telefono di Davigo si sarebbero potuti trovare ulteriori elementi che avrebbero aggravato la sua posizione, è la logica implicazione.

 

Naturalmente non è questa la ragione della condanna. Le bugie, per quanto eticamente non corrette e in contraddizione con il moralismo davighiano, sono uno strumento legittimo di difesa per gli imputati. La vera ragione della condanna è la hybris. Perché le prove sull’uso di verbali secretati, fuori da ogni regola e con l’obiettivo di fare terra bruciata attorno ad Ardita nel Csm, erano state fornite dalle ammissioni pubbliche dello stesso Davigo.

 

Il punto era proprio che l’ex pm di Mani pulite e consigliere del Csm credeva di incarnare la Giustizia meglio delle leggi, di poter cioè in virtù delle sue qualità personali agire al di sopra delle regole. Le procedure e le norme, che in uno stato di diritto sono la garanzia contro l’arbitrio, nel Codice Da Vigo si rivelano un ostacolo che impedisce di fare giustizia. È la sua persona attraverso il suo verbo, bisbigliato alle orecchie di magistrati e politici, che amministra al di fuori di ogni garanzia la delegittimazione di persone semplicemente coinvolte da un calunniatore le cui accuse inverosimili non sono ancora state verificate da nessuno. La legge sono io, è il primo articolo del Codice Da Vigo.

 

Questa arroganza si era manifestata già durante il processo di primo grado, quando, rispetto alle intemperanze di Davigo, il giudice Roberto Spanò l’aveva invitato a “svestire la toga” e a “calarsi nella parte dell’imputato”. Ma si è manifestata in maniera più evidente poco prima dell’inizio del processo di appello, quando Davigo in un luogo non propriamente istituzionale come il podcast di Fedez decise di attaccare il tribunale di Brescia che l’aveva giudicato: “Sono stato condannato perché a Brescia non sempre le cose le capiscono”, disse al rapper l’ex presidente dell’Anm. E ancora, in riferimento al giudice Spanò, presidente del collegio che l’aveva condannato: “Ha più volte pubblicamente dichiarato che fino a questo processo non sapeva cosa fosse il Comitato di presidenza del Csm. Non è una cosa di cui ti devi vantare!”. 

 

Quelle parole provocarono la dura reazione sia del tribunale di Brescia (“Sorprende che un magistrato che ha ricoperto incarichi apicali di rilievo nazionale si lasci andare a pesanti giudizi che investono i giudici che lo hanno giudicato”) sia dell’Anm di Brescia secondo cui “screditare personalmente gli autori di una decisione giudiziaria”  significava “affermarsi depositari di una verità superiore rispetto a quella che, in uno stato di diritto, viene accertata nelle aule giudiziarie”.

 

È per questo sentirsi superiore alle leggi che Davigo ha usato per scopi personali i verbali di Amara. E per la stessa ragione sarà convinto, anche dopo la sentenza di appello, che l’unica ragione per cui è stato condannato è che “a Brescia le cose non le capiscono”. Perché usano il codice penale invece del codice Da Vigo. 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali