Il libro
La Consulta e le intercettazioni ai parlamentari. L'allarme di Nicolò Zanon
L'ex giudice della Corte costituzionale evidenzia le conseguenze rischiose della sentenza sul caso Ferri: "A un pm accorto basterà evitare di iscrivere il parlamentare nel registro degli indagati per intercettarlo a piacere"
“A un pm accorto basterà evitare di iscrivere il parlamentare nel registro degli indagati per partire da una posizione di vantaggio, intercettandolo a piacere. Una posizione di vantaggio inquietante, proprio nel momento in cui si assiste alla diffusione di strumenti tecnologici che consentono micidiali intrusioni nella comunicazione di chiunque”. A lanciare l’allarme non è una persona qualsiasi, ma Nicolò Zanon, ex giudice della Corte costituzionale, nel suo libro “Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale: dieci casi” (Zanichelli), da lunedì nelle librerie. Infrangendo definitivamente il segreto della camera di consiglio, Zanon racconta dieci casi che hanno diviso la Consulta negli anni in cui lui ne ha fatto parte (2014-2023).
Una delle sentenze più controverse è quella pronunciata il 20 luglio 2023 sul “caso Ferri” (la n. 157). Nella sentenza la Corte ritenne sostanzialmente legittime le intercettazioni realizzate nei confronti di Cosimo Ferri (all’epoca deputato) tramite il trojan inoculato nel cellulare di Luca Palamara, in occasione della famosa riunione all’Hotel Champagne del 9 gennaio 2019. La riunione coinvolse i due, cinque componenti togati del Csm e il deputato Luca Lotti, e fu incentrata sulla nomina del nuovo procuratore di Roma. Da quella intercettazione esplose lo scandalo sulle cosiddette nomine pilotate al Csm. Secondo la Camera dei deputati e i legali di Ferri, l'intercettazione non avrebbe mai dovuto essere realizzata né utilizzata dai magistrati, in quanto finalizzata a captare un deputato protetto dalle garanzie della Costituzione.
La Sezione disciplinare del Csm ritenne invece l’intercettazione “casuale”, e questo nonostante la frequentazione fra Ferri e Palamara fosse nota da tempo, i due si fossero sentiti al telefono nei giorni precedenti e l’Hotel Champagne fosse notoriamente la residenza romana del deputato. La procura di Perugia, inoltre, aveva invitato la polizia giudiziaria a non attivare le captazioni qualora fosse emerso un incontro fra Palamara e membri del Parlamento.
In maniera del tutto anomala rispetto alla giurisprudenza in materia, i giudici costituzionali hanno tuttavia stabilito che se il parlamentare non è indagato, né persona offesa o informata sui fatti non può dirsi destinatario dell’atto di indagine e quindi è liberamente intercettabile, a meno che il carattere mirato degli atti di indagine non emerga da “elementi connotati da particolare evidenza”. “La definizione di ‘particolare evidenza’ del carattere mirato dell’atto di indagine, ovviamente, affida alla Corte una larga discrezionalità definitoria, che si tradurrà con forte probabilità in letture (arbitrariamente?) diverse”, sottolinea Zanon. “Ma soprattutto – aggiunge – la soluzione escogitata lascia nelle mani dell’autorità inquirente, fin dall’inizio della partita, tutte le carte del gioco”, attraverso il ricorso al metodo riportato in apertura di questo articolo: al pubblico ministero basterà evitare di iscrivere il parlamentare nel registro degli indagati e poi intercettarlo, partendo così da una posizione di vantaggio.
Evidenziato il pericolo che corre il libero esercizio del mandato parlamentare, è un peccato che nel volume Zanon non sia ritornato sulle dichiarazioni da lui fatte lo scorso dicembre alla presentazione dell’ultimo libro di Alessandro Barbano. Zanon rivelò che “nel non detto di quella motivazione” si cela un argomento che venne speso da diversi giudici della Corte in camera di consiglio e che “a noi fece inviperire”: “Non è pensabile che si dia ragione alla Camera, perché se si dà ragione alla Camera le intercettazioni acquisite diventano prove non più valide e il rischio a catena è che tutti i processi disciplinari di fronte alla sezione disciplinare, quei cinque che erano stati imbastiti contro quegli sventurati partecipanti alla serata dell’Hotel Champagne, finissero in un nulla”.
Insomma, “non era possibile smentire la Cassazione e la sezione disciplinare” del Csm, altrimenti sarebbe saltata la condanna alla sospensione dalle funzioni e dallo stipendio nel frattempo comminata nei confronti dei cinque togati del Csm che parteciparono alla riunione all’Hotel Champagne. Ragionamenti non propriamente di carattere giuridico, e non è un caso che il giudice Franco Modugno (oggi vicepresidente della Corte) decise di esprimere il suo dissenso rifiutandosi di stendere le motivazioni della decisione.
Nel suo libro Zanon evita purtroppo di fornire maggiori dettagli su questo retroscena. Violato ormai il segreto della camera di consiglio, l’ex giudice costituzionale sarebbe potuto andare fino in fondo e svelare cosa effettivamente accadde prima della sentenza. Un’occasione persa.