verità giudiziaria e verità politica
Il processo Regeni e la falsa impressione di fare “giustizia”
“Non so neanche se il mio assistito è vivo o morto”, spiega uno dei legali degli imputati egiziani, rendendo bene l’idea di un processo diventato paradossale. E anche per ascoltare i testimoni la procura ora chiede una mano alla Farnesina
“La Farnesina ci aiuti a far venire i testimoni egiziani”. E’ ripreso con un nuovo disperato appello della procura di Roma rivolto al ministero degli Esteri il processo sull’omicidio di Giulio Regeni, in corso davanti alla Corte d’assise della Capitale. Nonostante infatti il tentativo di risolvere la vicenda sul piano giudiziario, alla fine si torna sempre lì, al vero nodo, che resta di natura politica e diplomatica. Il processo, d’altronde, secondo la Corte d’assise non avrebbe dovuto svolgersi, non essendoci prova della conoscenza da parte degli imputati egiziani del procedimento a loro carico. Si tratta di quattro agenti della National Security: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati di sequestro di persona pluriaggravato e solo Sharif anche di concorso in lesioni personali aggravate e di concorso in omicidio aggravato. Soltanto una sentenza molto discutibile della Corte costituzionale ha permesso al processo di svolgersi, ma il nodo politico-diplomatico, come detto, torna inevitabilmente sempre al pettine.
“Su 73 testimoni, 27 risiedono in Egitto, sarà quindi fondamentale che siano autorizzati a uscire dal paese per venire in Italia a deporre davanti a questa Corte”, ha affermato in aula lunedì il procuratore aggiunto di Roma, Sergio Colaiocco. “Per questo, lo diciamo sin d’ora – ha aggiunto – servirà un proficuo lavoro del ministero degli Affari esteri che dovrà suscitare la collaborazione delle autorità egiziane. Solo la polizia egiziana, infatti, può notificare gli atti ai testimoni residenti in quel paese e autorizzarne l’arrivo in Italia”. Insomma, se prima il problema era costituito dagli imputati, ora tocca ai testimoni. E chissà se anche in questo caso si arriverà a sacrificare il diritto di difesa in nome della necessità di raggiungere la “verità” sul caso Regeni. “Di fronte all’impossibilità di notificare gli atti ai testimoni, l’accusa potrebbe forzare la mano anche in questo caso per far entrare nel fascicolo del dibattimento le dichiarazioni che queste persone hanno reso precedentemente davanti all’autorità egiziana”, afferma al Foglio l’avvocato Tranquillino Sarno, legale d’ufficio di Athar Kamel Mohamed Ibrahim. Insomma, alla forzatura della Consulta se ne potrebbero aggiungere altre, tutte a discapito di alcuni princìpi basilari del nostro ordinamento giuridico.
“Non so neanche se il mio assistito è vivo o morto”, spiega Sarno, rendendo bene l’idea di un processo diventato a dir poco paradossale. “Questo non è un processo, è un simulacro”, prosegue. “Si celebreranno una marea di udienze in cui noi della difesa non avremo nessuna domanda da fare. Nella prossima udienza verrà ascoltato come testimone il padre di Regeni, poi saranno ascoltati i suoi amici. Ricostruire la vita di Giulio in Egitto è corretto, per carità. Ma quali domande dovremmo fare?”.
Ma i dubbi emergono soprattutto se si guarda alle prove raccolte dalla procura di Roma per accusare i quattro ufficiali egiziani. Prove, a prima vista, piuttosto deboli. “Gli imputati appaiono già colpevoli, ma in realtà c’è pochissimo contro di loro. I pm, ad esempio, sostengono che poiché da alcuni tabulati emerge che il mio assistito ha telefonato a uno dei soggetti che avrebbero effettuato la perquisizione in cui sono stati ritrovati i documenti di Regeni, allora verosimilmente avrà partecipato al sequestro di Regeni”, dice Sarno sbigottito. Senza parlare poi del testimone chiave: “Si tratta di un signore kenyota che ha riferito di aver sentito in un ristorante a Nairobi il maggiore Sharif confessare a un collega l’uccisione di Regeni. Questo sarebbe il teste chiave: un signore che avrebbe sentito una conversazione tra sconosciuti al tavolo a fianco”, dichiara l’avvocato.
Inutile ricordare, infine, che in caso di condanna la sentenza resterebbe comunque non eseguibile. “La verità giudiziaria non l’avremo mai e, se l’avremo, l’avremo in maniera molto forzata. Ciò che serve è la verità politica”, afferma Sarno. “La politica, invece, mi sembra che abbia delegato alla magistratura per far sì che le richieste della procura e della famiglia vadano a Piazzale Clodio anziché alla Farnesina o a Palazzo Chigi”. A tal proposito, il processo Regeni è ripreso proprio il giorno dopo l’incontro al Cairo fra Meloni e Al Sisi, incentrato sulla gestione dei migranti. Il tribunale di Roma è diventato solo un luogo in cui scaricare un problema, dando l’impressione di giustizia.