Il libro di Goffredo Buccini
Trent'anni di guerra hanno distrutto la politica, ma non la casta dei giudici
Dal pool alle riforme Nordio
“La repubblica sotto processo” (Laterza) affronta un tema cruciale, ma Buccini si attiene a una “narrazione” già vista e in qualche modo pietrificata in cui le colpe maggiori sono solo della politica, mentre gli abusi, gli errori e e l'esondazione del potere della magistratura è assai minimizzato. Appunti di lettura
Di sicuro c’è solo che è scritto con l’AI. Perdonerà Goffredo Buccini il rimando al celebre titolo di Besozzi sul bandito Giuliano, del resto anche Buccini è un inviato esperto di giudiziaria. Se non perdonerà pazienza, il calembour serve solo per introdurre un tema. Il suo nuovo libro, “La Repubblica sotto processo – Storia giudiziaria della politica italiana 1994-2023” fa sorgere, a ogni pagina, una domanda: qual è il senso vero che l’autore vuole dare alla sua storia, e alla storia italiana?
Non è semplice da capire – al di là della utile ricapitolazione dei fatti. L’argomento è la linea di faglia più terremotata degli ultimi decenni italiani (opposizione inconciliabile tra “forcaioli giacobini e garantisti giustificazionisti”, la chiama: ma non è solo questione di estreme). L’impressione è che Buccini abbia scelto per il suo corposo lavoro (384 pagine, Laterza) di attenersi a una “narrazione” già vista, metabolizzata dal discorso pubblico e in qualche modo pietrificata, come le Vite del Vasari, senza avanzare dubbi. Oggi che va di moda la storia come decostruzione e disvelamento di meccanismi ideologici, è una scelta un po’ troppo piana. Che non vuol dire fatta in automatico, per carità, ma è come se Buccini abbia scelto di utilizzare un solo archivio parziale. Questo incuriosisce. Buccini, oggi editorialista del Corriere della Sera, era stato nel pool dei cronisti che si abbeveravano alle verità unilaterali del pool di Mani pulite e alle distorsioni professionali, etiche e politiche di quella stagione ha dedicato un bel libro, “Il tempo delle Mani pulite”, raro caso di autocritica e revisione da parte giornalistica di quel che avvenne. Per ripercorrere trent’anni di guerra giudiziaria in Italiua si affida invece una sorta di vulgata. A partire dal titolo: il 1994 è l’anno della discesa in campo di Berlusconi, ma Buccini è ovviamente obbligato a ripercorrere il biennio che l’ha prodotta. E lo fa senza suggerire un chiaroscuro. Di Pietro è un cavaliere senza macchia (al massimo irruento) che poi farà qualche pasticcio (Filippo Facci in “La guerra dei trent’anni” dedica le prime cento pagine a spiegare cosa fosse l’Italia degli Ottanta, e da quale sottobosco non candido sbucasse Di Pietro), il pool sono gli “Intoccabili” di De Palma. Scrive che l’inchiesta produsse circa 1.300 dichiarazioni di colpevolezza, ma tralascia che su 4.520 indagati i rinvii a giudizio furono 3.200, e un migliaio gli assolti e prosciolti. Non un trionfo. Avvalla l’idea che “nei trent’anni successivi” non si è trovata risposta alla domanda “ma perché diavolo si è dimesso Tonino?”, mentre è noto, anche dal processo di Brescia, che alcuni addebiti gli avrebbero fruttato perlomeno dei provvedimenti disciplinari. Per Buccini si tratta di “vicende già ammesse e già ridimensionate”; molte pagine dopo di Renzi dirà che certe sue “azioni penalmente irrilevanti” lo rendono però “il persecutore di sé stesso”. Semplice dire che lo scatenamento avviene con Berlusconi, e sgranare il rosario di Previti, Dell’Utri, Mangano, con solo qualche schizzo di fango anche tra i magistrati, che restano gli ottimati della Repubblica. Qualche tic stilistico rivelatore. Verdini in Mugello è già uomo “dai mille affari non tutti inappuntabili”. A Bonini e D’Avanzo si deve “lo smantellamento per via giornalistica di una gigantesca bufala cavalcata dalla destra, l’intrigo Telekom Serbia”; altre bufale di procura smontate non hanno lo stesso plauso. Decenni di intercettazioni e mercimonio tribunali-giornali, ma solo sull’intercettazione della banca di Fassino si legge “uno scoop clamoroso e clamorosamente illegale”.
Poi arriva la fase disastrosa, il grottesco periodo dei girotondi di Pancho Pardi e Moretti che aprirono le cateratte del populismo, e qui la condanna della “genuflessa adesione a una linea politica dettata dalle procure” è invece netta. E Buccini ha facile gioco a smantellare la triade delle indagini bufale, De Magistris, Woodcock e Ingroia. Assieme ai populisti avvivano i due grandi processi farlocchi, la Trattativa e Mafia capitale. Buccini, avvicinandoci al presente, ne coglie le pericolose derive, ma anche qui sembra attribuirle a un combinato disposto in cui la politica è comunque colpevole. Che Di Matteo pm del processo Trattativa abbia scritto un libro con Saverio Lodato dal titolo “Il patto sporco” dovrebbe essere uno scandalo, non una fonte da utilizzare a processo ormai smontato dai giudici. Ci sono le escort, finite in nulla anche quelle, peccato non ricordarsi di quando Ilda Boccassini diede a Karima el Marough di ragazza “dalla furbizia orientale”. Si arriva alla riforma Cartabia, agli scontri sull’abuso d’ufficio, la separazione delle carriere, i nodi inestricabili che gli opposti estremismi (ma non solo: pesa più il potere esterno della magistratura) non consentono di sciogliere. Quando il libro Buccini va in stampa non è ancora uscita la sentenza Consip, ma qualche indizio per giudicare nella sua gravità il trattamento riservato per anni a Renzi, che è molto più di “un’attenzione, diciamo così, particolare”, c’era. Bene ammettere col sociologo Mauro Calise che negli ultimi 25 anni “il ruolo della magistratura è stato strettamente dipendente dalla amplificazione mediatica”, e che “noi giornalisti vi abbiamo contribuito”, ma non definire allo stesso tempo “semplicistico” dare tutta la colpa alle tricoteuses (infatti: c’era una politica e una magistratura che ha sempre navigato insieme). Il granello di sabbia tra i denti che infastidisce fin dalle prime pagine è la domanda su un libro che avrebbe potuto fare più chiarezza sul disastro istituzionale di oggi. “Le cronache dell’ultimo decennio non hanno fatto che confermare questo pubblico prolasso”, scrive. Ma perché non chiedersi, una buona volta, se questo disastro non sia stato provocato, più di quanto si ammette, dall’unica irriformabile casta che resista in Italia, il potere giudiziario che ha deciso di “mettere sotto processo” la Repubblica?
L'editoriale del direttore