la trattativa di sandokan
“Su Schiavone l'antimafia oltranzista usa la stessa ideologia della Trattativa”. Parla Fiandaca
Per Saviano & Co. pentirsi non basta: il boss dei casalesi Schiavone deve parlare dei politici collusi. “E’ un’ossessione”, dice il professor Fiandaca. "L'ossessione che ci siano sempre cose indicibili da scoprire, turpi patti fra stato e mafie"
Il boss dei Casalesi, Francesco Schiavone, si è pentito, ha iniziato a collaborare con la giustizia. Ma questo all’antimafia militante sembra non bastare: servono i nomi dei “politici collusi”. E c’è chi pretende da “Sandokan” addirittura la verità sulle stragi mafiose del 1992-1993. “E’ un’ossessione”, afferma al Foglio Giovanni Fiandaca, emerito di Diritto penale all’Università di Palermo. “Questa ossessione parte da un’ipotesi pregiudiziale: che continuino a esserci cose indicibili da scoprire, turpi patti. E’ una tesi – spiega – fatta propria dall’ala più radicale e oltranzista dell’antimafia, rappresentata ormai da una minoranza di magistrati come Di Matteo e Scarpinato, e l’ex magistrato Ingroia”. “Ma quali sono questi politici diavoleschi e tremendi che avrebbero tramato con la camorra? Mi pare una fantasia dostoevskiana”, dice Fiandaca.
Sulle pagine del Corriere, Roberto Saviano ha messo nero su bianco la sua particolare visione delle cose, scrivendo che “la camorra e la mafia non sono l’antistato, sono una parte dello stato”: “Le mafie sono una parte integrante dello stato e sono contrastate da un’altra sua frazione. Nello spazio fra questi due poli, vi è la più ampia fetta di stato che, a seconda del proprio vantaggio, ondeggia tra la repressione, la complicità e, più spesso, l’indifferenza”.
“Ognuno fa il suo mestiere”, replica Fiandaca: “Gli esponenti dell’orientamento oltranzista continuano a esistere anche per giustificare la loro sopravvivenza, cioè per legittimare le tesi sostenute in passato. Il punto, però, è che quest’ala tiene in pochissima considerazione le risultanze giudiziarie e la logica dell’accertamento secondo i riscontri probatori di tipo oggettivo. Quest’ala eccede in soggettivismo interpretativo, per via di un condizionamento ideologico e per un’applicazione meccanicistica di uno schema interpretativo secondo cui ci sarebbe stata una costante tendenza al compromesso storico-politico fra lo stato italiano e le organizzazioni criminali. Nel corso del tempo avrebbe per lo più prevalso un patto di tipo compromissorio, mentre sarebbero state soltanto fasi eccezionali quelle nelle quali lo stato avrebbe deciso di contrastare le organizzazioni mafiose”. In verità, spiega Fiandaca, l’orientamento interpretativo ormai maggioritario tra gli studiosi, storici e sociologi, “è nel senso che ci possono senz’altro essere state delle forme di compromissione fra mafie e pezzi delle istituzioni statali e servizi segreti deviati ma che non si sia trattata di una collusione organica e sistematica tra stato e organizzazioni criminali”.
“Fin dalle mie prime critiche all’impostazione del processo sulla Trattativa – prosegue il professore – ho invece ravvisato da parte dei magistrati l’inclinazione a considerare una sorta di legge storico-sociologica ferrea la tendenza dello stato a colludere con la mafia, in una logica di reciproci vantaggi. In questa prospettiva, anche l’azione di Mori di avvicinare Ciancimino non avrebbe potuto avere altra motivazione che quella di restaurare un patto di convivenza fra stato e mafia. Questa tesi era affermata in via pregiudiziale prima ancora di rinvenire elementi di supporto oggettivi che potessero giustificarla”.
“Si tratta di un approccio ideologico e pregiudiziale che ha inficiato tutta l’impostazione del processo Trattativa”, ribadisce Fiandaca, che aggiunge: “Lo stesso schema, mutatis mutandis, si riproduce ora con queste aspettative rispetto alle dichiarazioni sconvolgenti che dovrebbe fare Schiavone sui turpi patti fra le organizzazioni criminali e lo stato, tra l’altro in un’ottica totalizzante”. Fiandaca si riferisce alla tendenza ad attribuire anche alla camorra un ruolo nelle stragi che hanno sconvolto l’Italia nel 1992-1993: “Tutte le organizzazioni criminali avrebbero avuto una forma di convergenza nel partecipare alla stagione stragista. Mi pare un’ipotesi preconcetta per la quale non mi pare ci siano elementi di riscontro anche minimi”, afferma Fiandaca. “A Reggio Calabria la pubblica accusa ha ipotizzato per l’epoca delle stragi un’alleanza fra ‘ndrangheta e Cosa nostra. Ora l’ipotesi arriverebbe a includere anche la camorra. Mi sembra una fantasia da spy story, da storytelling”, attacca il professore.
Il problema è che per l’ala oltranzista dell’antimafia le sentenze non sembrano avere alcuna importanza. Basta vedere il modo con cui, nel suo ultimo libro (intitolato in maniera emblematica “Il colpo di spugna”, edito da Fuoriscena), Nino Di Matteo ha definito la sentenza della Corte di cassazione che ha bocciato il processo sulla “trattativa stato-mafia”, assolvendo tutti gli imputati istituzionali: “Uno schiaffo in faccia che non meritavano i giudici e i pubblici ministeri che avevano istruito il processo. Un attacco frontale – prosegue Di Matteo – che ha lasciato attoniti i tanti cittadini che avevano seguito con attenzione e speranza quello che accadeva nell’aula bunker di Palermo e che avevano colto in quel processo il segnale di una giustizia finalmente uguale per tutti. Di uno stato che non aveva più paura di processare se stesso e non aveva più intenzione di nascondere la polvere sotto il tappeto. Ma non è andata affatto così”.
Come a dire: era impossibile pensare a un esito diverso, perché lo stato non ha il coraggio di processare se stesso. “Da parte di alcuni magistrati antimafia – replica Fiandaca – si è più di una volta attribuito alla Corte di cassazione un eccesso di preoccupazione garantista nell’affermare princìpi di diritto che, nella loro pretesa di rigore tecnico, finirebbero col trascurare la comprensione delle dinamiche operative delle organizzazioni mafiose e dei complessi intrecci collusivi fra le organizzazioni e poteri esterni. Come se si trattasse di un eccesso di tecnicismo giuridico che finirebbe per tradursi in un lusso ingiustificato rispetto all’efficienza repressiva”. “Sta di fatto che in questo modo, in malafede o in buonafede, i pm dimostrano di non voler capire il problema delle loro impostazioni accusatorie”, conclude Fiandaca.