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La sentenza d'appello su Mimmo Lucano è un monito contro l'abuso delle intercettazioni
Depositate le motivazioni della sentenza di secondo grado nei confronti dell'ex sindaco di Riace. Crollano le accuse. In assenza di prove vere e proprie, i pm e poi il tribunale di Locri si sono affidati anima e corpo alle captazioni, risultate inconsistenti e anche inutilizzabili
Oltre a smontare la quasi totalità delle accuse mosse nei confronti di Mimmo Lucano, le motivazioni – depositate nei giorni scorsi – della sentenza della corte d’appello di Reggio Calabria sul processo “Xenia”, riguardante la gestione dei progetti di accoglienza dei migranti a Riace, contengono un avvertimento ai magistrati a non basare le loro indagini soltanto sulle intercettazioni.
Nel 2021 il tribunale di Locri aveva condannato Lucano a una pena pesantissima, 13 anni e due mesi di reclusione, addebitandogli una serie infinita di reati legati alla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti (associazione per delinquere, truffa, peculato, falso, abuso d’ufficio). La sentenza di condanna è stata, appunto, ribaltata in appello: tutti i reati più gravi sono caduti, mentre è rimasta in piedi solo un’accusa di falso, che è costata a Lucano una condanna a diciotto mesi di reclusione, con pena sospesa. Le motivazioni della sentenza d’appello evidenziano ora come non sia emersa alcuna prova che possa dimostrare l’esistenza di una struttura associativa, così come “manca la prova degli elementi costitutivi il reato” di truffa, mentre “non è configurabile” il reato di peculato. In altre parole, tutti gli elementi “suggeriscono di escludere che Lucano abbia orchestrato un vero e proprio ‘arrembaggio’ alle risorse pubbliche”, come era stato affermato dal tribunale di Locri. Al contrario, emergono “l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto e l’indiscutibile intento solidaristico” da parte dell’imputato.
Ma ciò che colpisce particolarmente dalla lettura delle 300 pagine di motivazioni è il monito dei giudici d’appello contro l’abuso delle intercettazioni. I giudici, infatti, evidenziano come per diversi reati (per esempio il peculato) “la prova sia costituita in modo preponderante, se non totalizzante, dagli esiti dell’attività tecnica di intercettazione”. “Una preponderanza – proseguono i magistrati – non solo quantitativa, ma anche e soprattutto qualitativa, atteso che si tratta di elementi di prova decisivi per l’accusa in quanto illuminanti, come un faro nell’oscurità, i residui elementi documentali che, da soli, non sono in grado di dare dimostrazione (e dunque di offrire la prova) di sottostanti e artefatte condotte e, quindi, dei reati contestati”. Insomma, in assenza di prove vere e proprie, i pm e poi il tribunale si sono affidati anima e corpo alle intercettazioni realizzate durante le indagini. Intercettazioni, però, che non solo possono essere interpretate in maniera diversa a seconda di chi li legge, ma possono persino essere travisate nel loro significato.
Esemplare il caso di un’intercettazione in cui Lucano parla a Capone (all’epoca legale rappresentante di “Città Futura”) dell’acquisto di un frantoio da destinare alla gestione dei migranti. Secondo il tribunale, Lucano suggerisce al suo interlocutore le false dichiarazioni che avrebbero dovuto rendere sulle spese effettuate. “(Gli diciamo, ndr): facciamo una cosa che serve per l’integrazione e serve per tutti. E’ per i rifugiati, gli devi dire”, scrive il tribunale. Peccato che dalla trascrizione fatta dal perito le frasi “gli diciamo” e “gli devi dire” non risultano. Non risultano, cioè, quelle espressioni “valorizzate dal tribunale nel ritenere che i due stessero approntando una precostituita linea difensiva per eludere le proprie responsabilità”, sottolinea la corte d’appello.
Non è tutto. Nel corso del processo si è posto anche il problema dell’utilizzabilità delle intercettazioni autorizzate per alcuni reati gravi, i cui risultati però sono stati poi usati per dimostrare altri reati meno gravi per i quali le intercettazioni non avrebbero potuto essere autorizzate. Dalle motivazioni della sentenza d’appello emerge come i pm (con l’avallo del tribunale) abbiano fatto ampio uso di intercettazioni effettuate per reati non autonomamente intercettabili. Considerarle legittime significherebbe, scrivono i giudici d’appello, “da un lato svuotare di contenuto la funzione di garanzia propria del provvedimento autorizzativo; dall’altro, trasfigurare il decreto in una sorta di ‘autorizzazione in bianco’, in aperto contrasto con la riserva di cui all’articolo 15 della Costituzione”. Per queste ragioni molte delle intercettazioni effettuate sono state giudicate non utilizzabili nel processo, con effetti a cascata su diversi reati, dichiarati insussistenti.
Una sentenza, insomma, che dovrebbe essere letta con attenzione da molti pm e giudici.