Fabio Pinelli (foto LaPresse)

l'intervista

Contro i pm schiavi del consenso. Parla il vicepresidente del Csm

Claudio Cerasa

“Il compito di un buon magistrato è far rispettare la legge, non definire un’etica pubblica. L’imparzialità di un giudice si difende con i dubbi, non alimentando il processo mediatico”. Colloquio con Fabio Pinelli

Il problema, in fondo, è tutto lì: come si ricostruisce, con la magistratura, una fiducia che in alcuni casi non c’è più? E, soprattutto, come si può evitare che il tema dell’imparzialità di un magistrato venga considerato dal magistrato un tema meno importante rispetto alla ricerca del proprio consenso personale? Fabio Pinelli è il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e in questa conversazione con il Foglio accetta di ragionare intorno a un tema delicato e ambizioso.

Come evitare che il virus del giustizialismo possa alimentare, tra i magistrati, una pericolosa pandemia giudiziaria. Come lavorare affinché la figura del magistrato possa essere sempre più sinonimo di terzietà e sempre meno sinonimo di parzialità. E come evitare che la politica continui in modo poco lungimirante a offrire alle procure leggi ballerine, dai contorni difficili da decifrare, destinate a mettere nelle mani dei magistrati un potere discrezionale enorme, spropositato. “Per il pubblico ministero, come per il giudice, la fiducia si ottiene attraverso l’autorevolezza. E la responsabilità sociale di un magistrato deve essere finalizzata non alla ricerca del consenso popolare, in senso politico e maggioritario, ma all’acquisizione della fiducia da parte di tutti i cittadini. Fiducia di essere ugualmente trattati di fronte alla legge, sia come imputati, sia come vittime”.

Facile a dirsi, ma nel concreto? Per farlo, dice Pinelli, occorre riflettere senza ipocrisie attorno al “modo di esercitare la funzione del magistrato”, nel rapporto tra i propri diritti e i propri doveri, e per farlo occorre ricordare ai magistrati che “il concetto di fiducia deve tornare a essere distinto da quello di consenso”.

Facile a dirsi, anche qui, ma nel concreto? Pinelli la prende da lontano. “Diceva Montesquieu alla fine del Settecento che chiunque abbia potere è portato ad abusarne, che chiunque abbia potere arriva sin dove non trova limiti e che perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere. Direi che in un certo senso è questo il nostro compito oggi. Ristabilire con urgenza il principio che l’essere imparziale torni al centro dell’esercizio dell’azione penale. Il magistrato, per citare Luciano Violante, deve dunque tornare a ragionare, e a lavorare, senza considerare più l’avere un dubbio come un tabù. Deve sapere che ha il dovere di pensare che potrebbe sbagliare. Deve ricordare che il nostro sistema processuale assegna al pubblico ministero di merito il compito di acquisire anche le prove a favore dell’imputato. Deve sapere che la ricerca del consenso determina una inaccettabile torsione delle sue funzioni. E deve sapere che oggi uno dei principali ostacoli al raggiungimento di una verità giudiziaria è proprio l’idea di infallibilità del magistrato”.

Per provare a ristabilire, come suggeriva Montesquieu, un equilibrio tra i poteri dello stato, tra potere giudiziario e potere legislativo, non è sufficiente che vi sia una semplice consapevolezza da parte della magistratura dei suoi limiti, ma è necessario, dice Pinelli, che la politica smetta di sentirsi sotto scacco del potere giudiziario al punto da offrire alle procure della Repubblica strumenti utili per poter esondare dalle proprie competenze. La politica contesta spesso alla magistratura di non essere imparziale nella interpretazione della legge, di essere eccessivamente creativa, ma per evitare di indurre in tentazione i magistrati, dice Pinelli, la politica, e il legislatore in particolare, dovrebbe essere più responsabile e lavorare affinché “oltre a occuparsi principalmente del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, utilizzi una tecnica legislativa che eviti formulazioni generiche, tali da delegare sostanzialmente al magistrato scelte assiologiche che essa non è in grado o non vuole compiere. Purtroppo, in questi anni, la magistratura si è trovata a dover far fronte alla richiesta di risoluzione di ogni conflitto sociale. Mancano luoghi di mediazione che consentano di non entrare nel circuito giudiziario. Questo va riconosciuto, unitamente al grande lavoro compiuto quotidianamente da tanti magistrati al servizio del paese”.

Ma detto ciò, dice Pinelli, “bisogna che i magistrati sappiano difendere la propria imparzialità”. E sul punto occorre, dice ancora il vicepresidente del Csm, aggiungere un altro tassello al mosaico. Occorre fare di tutto affinché il circo mediatico-giudiziario, che trasforma il processo che si celebra sui media in un processo più importante di quello che si celebra nelle aule di tribunale, venga limitato, combattuto, arginato, con il contributo di tutti. Pinelli non ha paura di dire che “il modo migliore per provare a disinnescare gli ingranaggi patologici del processo mediatico è mettere al centro dell’azione la tutela massima delle garanzie individuali e l’inderogabilità da un principio centrale che non deve essere considerato come un vezzo ma deve essere considerato il cuore del processo accusatorio: il principio del condannare oltre ogni ragionevole dubbio”.

Essere garantisti, dice Pinelli, non dovrebbe essere un concetto rivoluzionario, ma dovrebbe coincidere con “l’essere legalitari”, un pensiero condiviso da chi è desideroso di rispettare ciò che prescrive la Costituzione da molti considerata la più bella del mondo. Ma cosa vuol dire, fuori dalla retorica, rimettere la Costituzione al centro? Facile. “Il richiamo principale è all’articolo 27, l’imputato non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva e le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E insiste che “l’articolo 111, che prevede che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, di fronte a un giudice terzo e imparziale, all’interno di un percorso che garantisce alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e ad avere diritto a una durata ragionevole del processo, deve trovare una costante e quotidiana applicazione”. E ancora: “L’articolo 112 della Costituzione, poi, prevede che l’obbligatorietà dell’azione penale debba essere volta a garantire sia l’indipendenza del pubblico ministero, quale organo appartenente alla magistratura, sia l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge; quest’ultimo è il principio più alto da salvaguardare”. Il magistrato, conclude Pinelli, non deve cadere nelle trappole che abbiamo visto durante Tangentopoli, “quando le procure della Repubblica cercarono di definire un’etica pubblica effettuando un controllo di legalità partendo dal diritto penale”. 

Un magistrato che si occupa di morale, e non di penale, non è un magistrato che fa bene il suo lavoro. Ma un magistrato che non fa bene il suo lavoro è anche quello convinto di non essere soggetto ad alcuna legge, di essere immune dal pagare per gli errori che commette e di essere così al di sopra delle parti di non saper più distinguere tra un sospetto e una prova, fra un teorema e un reato. Sintesi: i magistrati eroi non sono quelli che usano il processo mediatico per accrescere il proprio consenso, e la propria popolarità, ma sono quelli che portano a casa i risultati, quelli che rispettano il principio di terzietà, di indipendenza, di imparzialità. Sono quelli, per capirci, che comprendono bene che il magistrato non è un’autorità morale, ma è una figura strategica che deve limitarsi però ad accertare la commissione di reati e le responsabilità individuali. “La forza istituzionale del Consiglio superiore della magistratura sta nella presidenza della Repubblica, garanzia di equilibrio tra i poteri dello stato. Affrontare ‘la questione giustizia’ partendo da questa base aiuta ad affrontare la complessità dei problemi in modo più corretto e ordinato. E seguire il faro del capo dello stato aiuta a capire cosa vuol dire interpretare perfettamente il principio costituzionale dell’imparzialità”. Conclusione. “Sciascia diceva che l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio. Diceva che quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. Valeva nel 1986, vale ancora di più oggi”. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.