il metodo meloni
La strategia del silenzio scarcera Salis
Altro che la candidatura alle elezioni europee. La militante di sinistra ottiene i domiciliari in Ungheria grazie a un lavoro diplomatico che è stato continuamente messo a rischio dalla politicizzazione del caso
Altro che la candidatura alle elezioni europee. E’ stato proprio l’acquietarsi del clamore mediatico e della polemica politica attorno al caso di Ilaria Salis a permettere al governo italiano di far fruttare il lavoro di mediazione e interlocuzione svolto negli ultimi mesi con le autorità ungheresi. Da qui la decisione di ieri del tribunale di seconda istanza di Budapest di disporre la scarcerazione dell’insegnante italiana e l’applicazione degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, in seguito al pagamento di una cauzione di 40 mila euro. “L’abbassamento dei toni ha permesso alla magistratura ungherese di valutare con maggiore serenità la richiesta di scarcerazione di Salis”, conferma al Foglio una fonte che si è occupata in prima persona della gestione della vicenda.
“A partire da gennaio le istituzioni italiane hanno lavorato in sinergia fra loro, e lontano dai riflettori dei media, per trovare una soluzione – aggiunge – mi riferisco soprattutto al lavoro svolto dal ministero degli Esteri, in cooperazione con quello della Giustizia, alla regia di Palazzo Chigi, e anche all’azione del Garante dei detenuti, che ha portato all’interessamento del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa”. Agli inizi di aprile si era attivato persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con una telefonata al padre di Ilaria Salis che, come avevamo sottolineato su queste pagine, aveva come obiettivo anche quello di inviare un messaggio molto chiaro ai partiti, all’epoca autori di una vera baraonda attorno al caso dell’insegnante: “Le istituzioni stanno lavorando, abbassate i toni”. Insomma, tradotto: la scarcerazione di Salis è un vero successo del sistema Italia.
Si comprendono così con maggiore facilità le parole espresse dal ministro degli Esteri Antonio Tajani subito dopo la conferma della scarcerazione di Salis: “L’Italia ha sempre lavorato sottotraccia e quando si lavora sottotraccia e non si suonano i tamburi i risultati si ottengono”.
D’altronde, sottotraccia è avvenuto anche il lavoro diplomatico che nel luglio 2023 ha portato alla liberazione in Egitto e al rientro in Italia di Patrick Zaki dopo tre anni, così come quello che a marzo ha condotto alla firma dell’autorizzazione al trasferimento in Italia di Chico Forti (si attende ancora la conclusione delle pratiche burocratiche). Ormai si potrebbe parlare di metodo Meloni.
“La campagna politica che la sinistra sta mettendo in piedi su Ilaria Salis, con i parlamentari che arrivano e insultano il governo ungherese, rischia di non aiutarla. Servono meno parole e più fatti. Forse dovremmo abbassare un po’ la pressione e riportare la questione a livello di moral suasion”, dichiarò proprio la premier Giorgia Meloni agli inizi di aprile, ospite di Porta a porta.
All’epoca Meloni sapeva benissimo, a differenza delle opposizioni, che denunciavano l’inerzia del governo, che se pochi giorni prima, il 28 marzo, Ilaria Salis aveva avuto modo di apparire nuovamente di fronte al tribunale di Budapest (seppur sempre in manette e trattenuta con una catena alla cinta), questo era stato solo merito dell’opera di diplomazia esercitata dal governo italiano. Questa attività aveva permesso di anticipare l’udienza, originariamente fissata per il 24 maggio. In altre parole, se il ministero degli Esteri non avesse lavorato, in silenzio, cercando di mediare con le autorità ungheresi, oggi Ilaria Salis starebbe ancora aspettando l’udienza del 24 maggio.
“Soddisfazione” per il provvedimento di scarcerazione è stata espressa anche dal Guardasigilli Carlo Nordio, che con Tajani incontrò a febbraio il padre di Ilaria Salis e il suo legale, suggerendo a quest’ultimo quale fosse la strada giusta da seguire in sede processuale, dopo le bocciature delle prime richieste (come quella di sostituire il carcere con la detenzione presso l’ambasciata italiana).
A quanto si apprende, le istituzioni italiane stanno ora lavorando con la difesa di Salis per comprendere se ci sia la possibilità (e nel caso quale sia la via migliore) di chiedere l’esecuzione dei domiciliari in Italia, richiesta che comunque comporterebbe un ulteriore passaggio davanti all’autorità giudiziaria ungherese.
La procedura sarebbe prevista dalla decisione quadro n. 829 del 2009 del Consiglio europeo, incentrata sul reciproco riconoscimento delle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare. La giurisprudenza in materia, però, non è univoca. Secondo l’orientamento maggioritario, la misura cautelare degli arresti domiciliari può trovare esecuzione nello stato membro dell’Unione europea di residenza della persona interessata. Secondo un orientamento minoritario, al quale però ha recentemente aderito la nostra Corte di cassazione, la misura degli arresti domiciliari non rientra nell’ambito della decisione quadro, che si riferirebbe esclusivamente alle misure cautelari non detentive (come l’obbligo di dimora).
Inutile dire che, anche in questo caso, l’interpretazione della norma da parte dei giudici ungheresi risentirebbe dell’opera di moral suasion da parte delle istituzioni italiane. In altre parole: il lavoro sottotraccia che ha portato alla revoca della custodia in carcere dovrà proseguire. Necessariamente senza baraonde o strumentalizzazioni dall’alto clamore mediatico da parte delle opposizioni.