L'analisi
Il ruolo del pm è una questione aperta, ma non si risolve con le "separazioni"
La separazione delle carriere non è di per sé imposta dall’adozione di un processo di ispirazione accusatoria, la cui caratteristica essenziale è invece la regola del contradditorio come metodo per l’acquisizione della prova davanti al giudice. Alcune idee
Possiamo accostarci alla separazione delle carriere evitando toni apocalittici hinc et hinde? È possibile evitare, citando Giovanni Falcone o Licio Gelli, l’argumentum auctoritatis e quello ad personam, argomenti insieme tra i più abusati e i più deboli come ci insegnano i manuali di retorica? È possibile ricordare che la comparazione è un’arte difficile: ogni norma, ogni istituto e il ruolo di ogni attore vanno inseriti nel contesto della struttura complessiva dello stato e, soprattutto, occorre fare riferimento alla realtà effettiva del funzionamento di sistemi processuali, non di rado alquanto distante da quello che si potrebbe dedurre dalla teoria delle norme? Può un ex pm (e per sovrammercato ex presidente Anm) esporre argomentazioni tratte dall’esperienza giudiziaria, non meno che da approfonditi studi e anche da cospicui periodi di soggiorni di studio in paesi europei e negli Usa, senza essere liquidato come corporativo?
Ben fragile il sillogismo per il quale la separazione è “consustanziale” al processo accusatorio, per la banale ragione che il “processo-accusatorio-puro” non esiste nella realtà, che vede solo sistemi “misti”, con livelli di garanzie molto diversificati. Qualunque imputato di buon senso, se potesse, sceglierebbe l’inquisitorio della Francia, piuttosto che l’accusatorio del Texas. La figura del pm, dei suoi poteri, del rapporto con la polizia giudiziaria e con i giudicanti, della sottoposizione o meno all’esecutivo è, nel mondo e in Europa, estremante diversificata, tanto che il capitolo su questo tema di un fondamentale studio sulle procedure penali europee è intitolato “Quante figure di pubblico ministero…”. La separazione delle carriere non è di per sé imposta dall’adozione di un processo di ispirazione accusatoria, la cui caratteristica essenziale è invece la regola del contradditorio come metodo per l’acquisizione della prova davanti al giudice.
Una qualche forma di collegamento/dipendenza del pm dall’esecutivo è in Europa il sistema largamente più diffuso. Tutta la evoluzione degli ultimi decenni è stata nel senso di delimitare e disciplinare questa influenza mirando verso uno statuto di sempre maggiore indipendenza del pm; ma tutte le involuzioni autoritarie che vediamo anche all’interno dell’Unione europea hanno tra i primi passi quello di ristabilire un controllo più diretto sul pubblico ministero, come premessa per il controllo ulteriore sui giudicanti.
Un corpo di pm autoreferenziale che quanto più si allontani dalla giurisdizione e dalla magistratura giudicante, tanto più ineluttabilmente si avvicinerà alla “cultura di polizia”, tanto meno avrà forza e autorevolezza per resistere alle pressioni di quell’opinione che lo vuole tough on crime duro con il crimine, come si dice negli Stati Uniti. E l’attrazione verso forme di dipendenza dall’esecutivo, al di là delle rassicuranti parole, è fatale, come la storia e l’esperienza del nostro e di altri paesi insegnano.
Il pm, primo attore in ordine di tempo del sistema di giustizia penale, è il bersaglio di opposte pressioni tra repressione e garanzie. E’ ineluttabile che sia così, così come è ineluttabile che l’ipotesi di accusa sia talora, con maggiore o minore frequenza, smentita nelle varie fasi del giudizio. Non è ineluttabile il protagonismo iperaccusatorio di taluni pm , peraltro sostenuto e osannato da settori non piccoli della società e dei media. Ma neppure è ineluttabile che alle difficoltà, ai problemi reali, alle cadute di professionalità, che esistono, si pensi di rispondere con ricette salvifiche in un clima di tifoseria anti pm.
Il giudice tende a “dare ragione” al collega pm? Ma in senso contrario stanno le percentuali significative di assoluzioni a fronte di richieste di condanna del pm e, ancor prima, i casi nei quali i giudici delle indagini preliminari non accolgono o ridimensionano richieste di custodia cautelari o il Tribunale del riesame annulla o ridimensiona decisioni dei gip. La “terzietà” del giudice delle impugnazioni non è messa in discussione dallo “spirito di colleganza” tra i giudicanti. Ogni giorno la professionalità e la deontologia dei giudici in sede di ricorso, in appello, in cassazione consentono di smentire quanto era stato deciso dal collega della stessa carriera giudicante.
È stata ricordata una proposta del 2004 dell’allora Parlamentare Giuliano Pisapia per la separazione delle carriere con legge ordinaria. Quello che si poteva fare senza toccare la Costituzione è già stato fatto con le norme che ormai hanno reso pressoché impossibile il passaggio da giudice a pm e viceversa. In quella proposta si rassicurava sul mantenimento delle garanzie costituzionali dell’art.107 terzo comma: “I magistrati si distinguono tra di loro soltanto per diversità di funzioni”, ma questa norma è seccamente abrogata dai progetti di legge costituzionale ora in discussione. Si citava anche il mantenimento dell’art.104: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, ma di questa norma si propone una radicale riscrittura. E infine si citava come ulteriore “argine insuperabile” l’art.112 sulla obbligatorietà dell’azione penale, ma ore se ne propone una modifica in termini che abbattono questo argine posto a tutela della eguaglianza di tutti davanti alla legge. Per di più oggi i problemi reali delle ineluttabili scelte sull’impiego delle risorse e sulle priorità sono stati affrontati con una legge che prevede che il Parlamento detti criteri di priorità: è da tempo in vigore ma nulla è stato fatto.
Il processo penale, il ruolo dell’accusa e della difesa si muovono nella difficile ricerca di equilibri tra diverse esigenze in un sistema di giustizia che affidiamo a persone umane fallibili. Il giudice deve costruire e coltivare la sua “terzietà”, sempre in tensione con i suoi “pregiudizi”, con l’orrore di fronte a stragi e delitti efferati e con l’impatto emotivo di vicende che trovano una riprovazione forte e diffusa nella società (pensiamo alle campagne del mee too) che rischia di travolgere ogni regola e garanzia.
Il pm deve essere capace di coltivare la sua “imparzialità” non solo nel corso dell’indagine in cui deve verificare con il dubbio la sua ipotesi accusatoria, ma anche nel dibattimento davanti al giudice ove deve sempre aver presente, mentre sostiene la tesi di accusa ormai cristallizzata nella imputazione portata a giudizio, che il contraddittorio con una difesa agguerrita è strumento essenziale affinché il giudice sia guidato nella ricostruzione, per quanto possibile nei limiti umani, della verità processuale.
La questione non tanto dell’indebito “protagonismo” di alcuni pm, che è patologia, ma del ruolo di una figura come quella del pubblico ministero, che in Italia, come ovunque nel mondo, ha assunto un ruolo centrale nel sistema della giustizia penale, rimane ovviamente aperta. Non la si risolve con gli slogan e le scorciatoie semplicistiche e “le riforme epocali risolutive”, ma con la paziente ricerca di difficili equilibri, nella coerenza di un sistema che salvaguardi le essenziali garanzie costituzionali.
Piuttosto che avventurarsi sulle “separazioni” occorrerebbe muoversi con decisione nella costruzione di una comune cultura tra tutti gli esponenti delle professioni giuridiche. Questo è il vero cantiere aperto su cui devono misurarsi le diverse istituzioni della magistratura e dell’avvocatura e le rispettive associazioni.
Edmondo Bruti Liberati è ex procuratore della Repubblica di Milano