il colloquio
“Vi racconto i miei 33 anni passati in carcere ingiustamente”. Parla Beniamino Zuncheddu
Intervista all’ex pastore sardo, vittima del più grave errore giudiziario della storia italiana. L’arresto, il carcere e la liberazione, ora in un libro. “Mi sento come un bambino che deve reimparare a camminare”
“Mi hanno bruciato 33 anni di vita. Pensi a quante cose avrei potuto fare, io non ho potuto fare niente. E chissà quanti ce ne saranno ancora lì dentro, innocenti che non hanno la possibilità di uscire dal carcere”. A parlare al Foglio è Beniamino Zuncheddu, vittima del più grave errore giudiziario della storia del nostro paese. Ex pastore di Burcei (Cagliari), Zuncheddu, 60 anni, è stato condannato all’ergastolo per la strage del Sinnai dell’8 gennaio 1991, che costò la vita a tre persone, per poi essere assolto al termine di un processo di revisione lo scorso 26 gennaio, dopo quasi 33 anni passati in carcere. Da oggi è nelle librerie con “Io sono innocente” (edito da DeAgostini), scritto con il suo legale, l’avvocato Mauro Trogu, in cui racconta la sua incredibile vicenda. Da quando è stato assolto, Zuncheddu è tornato a Burcei. “Mi sento come un bambino che deve reimparare a camminare”, ci dice, riferendosi a tutto ciò di nuovo che ha trovato una volta fuori dal carcere: “Nuove automobili, i telefonini, persino una nuova moneta, l’euro”.
L’incubo di Zuncheddu comincia l’8 gennaio 1991 quando sulle montagne di Sinnai vengono uccisi tre pastori e una quarta persona rimane gravemente ferita. Inizialmente le indagini non portano a nessun risultato. L’unico superstite e testimone oculare, Luigi Pinna, riferisce agli inquirenti di non aver potuto riconoscere colui che aveva sparato perché aveva una calza da donna sul volto ed era notte. A fine febbraio Pinna cambia improvvisamente versione e indica Zuncheddu come autore della strage. Si scoprirà in seguito, dopo oltre trent’anni, che a suggerire a Pinna di individuare in Zuncheddu il colpevole era stato un poliziotto.
“Il 28 febbraio 1991 alcuni agenti hanno suonato alla porta di casa e mi hanno portato in questura per accertamenti”, racconta Zuncheddu. “Non sapevo per che cosa fossero quegli accertamenti. Poi i poliziotti mi hanno interrogato e mi hanno detto che avevo fatto una strage. Ovviamente avevo sentito degli omicidi, lo avevo letto sui giornali e basta. Mi hanno preso e mi hanno portato in una stanza, una specie di magazzino. La spalliera della sedia era appoggiata a un termosifone. Mi hanno ammanettato il polso sinistro al tubo del termosifone, in alto, così il braccio rimaneva alto sulla testa, e mi hanno lasciato seduto lì tutta la notte, fino alle 9 del mattino. La mattina dopo non sentivo più il braccio. Sono venuti i carabinieri, mi hanno preso e mi hanno arrestato, senza dirmi niente”. Quando le hanno detto che era accusato di aver compiuto la strage cosa ha pensato? “Ho pensato che era impossibile, perché non ero stato io. Non ero stato io. E ho pensato che un giorno o l’altro mi avrebbero liberato, perché avevo anche dei testimoni. Invece non è stato così”, risponde Zuncheddu.
Il giudice per le indagini preliminari convalidò il fermo e dispose la misura di custodia cautelare nel carcere di Buoncammino. Il giorno seguente i giornali locali sbatterono in prima pagina la foto di Zuncheddu, che con dei processi lampo venne condannato all’ergastolo per la strage, grazie alla testimonianza, seppur contraddittoria, dell’unico sopravvissuto, Luigi Pinna.
Come è stata l'esperienza in carcere? “E’ stata dura, perché è un mondo diverso, non conosci nessuno”, racconta Zuncheddu. “E’ come essere buttati in mezzo alla giungla. Io comunque ho sempre rispettato gli altri detenuti e sono sempre stato rispettato. Anche perché devi convivere, devi stare insieme 24 ore su 24 e non devi trascorrere lì dentro uno o due giorni, ma anni. Ci si deve adeguare”. Gli altri detenuti credevano all’accusa di strage mossa nei suoi confronti? “No, non ci credeva nessuno. Non ci credevano neanche le guardie carcerarie, perché è impossibile. Un ragazzo di 26 anni che fa una strage? E’ una cosa impossibile”.
Le cattive condizioni delle carceri italiane sono purtroppo note. “Le carceri sono sempre state sovraffollate. La convivenza è un po’ dura perché ci sono magari celle per due persone e invece ne vengono messi dentro quattro, e lo spazio è sempre più ristretto. Nelle celle da quattro magari ne vengono messi dieci. Il sistema è sempre quello”, dice Zuncheddu.
Dove ha trovato la forza per passare tutti questi anni in carcere, come passava il suo tempo? “Mi hanno messo a lavorare. Ho fatto lo scopino, ho fatto il cuoco, ho fatto diverse mansioni. Quando ero chiuso in cella mi dedicavo a fare qualche lavoretto manuale, come gli stuzzicadenti. Oppure facevamo partite a carte, partite lunghissime per cercare di passare il tempo, altrimenti lì dentro la testa parte”. Ci sono stati momenti in cui le è partita, la testa? “No, no. Diciamo però che il corpo era sempre lì, ma la mente era sempre fuori”. E cosa pensava? “Pensava che un giorno o l’altro sarei uscito per forza dal carcere, che qualcuno avrebbe capito che ero innocente”.
A crederci è stato innanzitutto l’avvocato Mauro Trogu, che nel 2016 assunse la difesa dell’ex pastore sardo. Attraverso le sue indagini difensive, nel 2019 Trogu riuscì a convincere l’allora procuratrice generale di Cagliari, Francesca Nanni, ad aprire un processo di revisione per esaminare le nuove prove a sostegno dell’innocenza di Zuncheddu. Nanni giunse alla conclusione che la strage non era legata a presunti dissidi fra allevatori, bensì a un sequestro di persona che si era consumato in quella zona nello stesso periodo. “Quando la procuratrice Nanni decise di occuparsi della vicenda fui contentissimo, perché era una persona importante e solo lei poteva riaprire un caso del genere. Questo è avvenuto grazie all’avvocato Trogu, che ha lavorato giorno e notte. In quel momento mi sono rincuorato un po’. Mi sono detto ‘questa volta mi sa che ce la facciamo’”. In effetti, riaperto il caso, la procura autorizzò nuove intercettazioni ambientali nei confronti del superstite Luigi Pinna dalle quali emersero ammissioni e anche parziali pentimenti sull’accusa rivolta oltre trent’anni prima nei confronti di Zuncheddu.
Nonostante l’emergere di elementi che scagionavano l’ex pastore, però, il processo di revisione è rimasto praticamente fermo per tre anni, mentre le richieste di scarcerazione venivano respinte. “Avevo diversi testimoni a mio favore, ma non hanno creduto a nessuno. Hanno creduto all’unico superstite che ha cambiato sempre versione. Prima non aveva visto nessuno, poi mi aveva visto ma con una calza in testa. Qual è la versione giusta?”, incalza Zuncheddu. “Non capivo perché la scarcerazione veniva sempre negata”.
Si arriva così alla primavera-estate del 2023, quando Zuncheddu subisce un crollo fisico e psicologico evidente. “La vista mi era calata, avevo perso quasi tutti i denti e avevo dei mal di testa fortissimi. Non ce la facevo più”, racconta. L’avvocato Trogu decide così di rivolgersi a Irene Testa, Garante dei detenuti della Sardegna e tesoriera del Partito radicale, che inizia subito a occuparsi del caso e a portarlo all’attenzione dell’opinione pubblica. Attorno alla vicenda si sviluppa una mobilitazione condotta dal Partito radicale e da alcuni organi di informazione. “Anche i miei compaesani sono stati tutti solidali, molti di loro sono venuti a Roma per assistere alle udienze del processo”, ricorda Zuncheddu.
Il processo di revisione intanto va avanti e il 14 novembre 2023 Pinna, a sorpresa, ammette che all’epoca un poliziotto, Mario Uda, gli mostrò una foto di Zuncheddu prima di essere interrogato dal magistrato. “E’ lui il colpevole”, disse il poliziotto a Pinna, indirizzando le indagini. Pinna accusò così proprio Zuncheddu.
Il 27 novembre arriva la svolta: Zuncheddu viene rimesso in libertà dopo quasi 33 anni di carcere. “All’inizio non ci ho creduto. Poi quando mi hanno risposto che non stavano scherzando, ho preso alla rinfusa le mie cose e mi sono ritrovato fuori dal carcere, quello di Cagliari Uta. D’istinto, ho cominciato a incamminarmi verso casa. Ho pensato: prima che ci ripensano e magari mi rimettono dentro” (ride). “Poi mi sono fermato e ho chiamato i miei famigliari, che mi hanno riportato a Burcei. Lì c’erano tutti i miei compaesani che mi aspettavano. Hanno organizzato una festa con i fuochi d'artificio. E’ stata una cosa bellissima, emozionante”.
L’epilogo è giunto lo scorso 26 gennaio, quando la Corte d’assise d’appello di Roma ha assolto Zuncheddu al termine del processo di revisione. “Dopo la sentenza ho pensato subito di rientrare a casa. Mi sono sentito un po’ stordito”, racconta l’ex pastore, aggiungendo: “Se non ci fosse la mia famiglia, oggi dormirei per strada. Dopo aver bruciato 33 anni della mia vita, lo stato non sgancia una lira”.
Proprio un mese fa sono state depositate le motivazioni della sentenza della Corte d’assise d’appello di Roma. Motivazioni che hanno sorpreso la difesa. Leggendo il provvedimento, infatti, si scopre che Zuncheddu è stato assolto ai sensi del comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale (la vecchia formula dell’insufficienza di prove), quindi non con formula piena. Per i giudici, il processo di revisione “non ha condotto alla dimostrazione della certa ed indiscutibile estraneità di Beniamino Zuncheddu” alla strage di Sinnai, “ma ha semplicemente fatto emergere un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza”. Per i giudici di Roma, “è chiaro che una volta venuta meno la prova-cardine di un teste oculare che, sopravvissuto al massacro, asserisce di avere riconosciuto almeno uno degli aggressori, di fronte alla quale, giustamente, nel corso del procedimento del 1991, non si poteva che pervenire ad una sentenza di condanna, oggi la residua scorta indiziaria non può ritenersi sufficiente per pervenire alla conferma della condanna di Zuncheddu, oltre ogni ragionevole dubbio. Non v’è però prova piena della sua innocenza – si legge nelle motivazioni – e ciò perché egli fornì un alibi fallito che poi fu sostenuto da due testi pacificamente falsi”.
Le motivazioni hanno stupito innanzitutto Zuncheddu: “I giudici hanno scritto che in pratica non erano sicuri. Ma una cosa o l’hai fatta o non l’hai fatta. Ecco l’ingiustizia italiana”.
Ma a rammaricarsi per le parole usate dai giudici romani è soprattutto l’avvocato Trogu: “Le motivazioni mi hanno molto deluso. Proprio al Foglio, dopo la sentenza di assoluzione, dichiarai che le motivazioni ci avrebbero mostrato il livello di progresso di civiltà giuridica del nostro paese e ci avrebbero spiegato quanto ci siamo allontanati dal 1991 o meno. Devo dire che la distanza dal 1991 a oggi è veramente inesistente”. “Nelle motivazioni – spiega Trogu – si adottano gli stessi schemi che portarono alla condanna di Zuncheddu. Non c’è una sola parola di biasimo verso il falso costruito dalla polizia giudiziaria, non c’è il minimo cenno al fatto che la questura di Cagliari insabbiò una pista del procedimento, tenendo nascosti gli atti dei primi dieci giorni di indagine. L’unico soggetto contro cui continua a essere puntato il dito è Zuncheddu, che a detta della Corte è colpevole di aver fornito un alibi falso all’epoca dei fatti. Io avevo chiesto che fosse ammessa come prova una consulenza tecnica che serviva proprio a dimostrare che l’alibi di Beniamino reggesse. La consulenza, infatti, avrebbe dimostrato che i tempi necessari per commettere quegli omicidi erano molto più lunghi di quanto non venne ritenuto nella prima sentenza, ma la consulenza non è stata ammessa in quanto ritenuta irrilevante. Invece, nella sentenza ora si scopre che la questione dell’alibi era ancora rilevante”.
“La testimonianza principale, l’unica, quella del testimone oculare, è caduta. Che alibi deve fornire un soggetto che nessun altro colloca nella scena del delitto?”, si chiede l’avvocato Trogu. “Siamo di fronte a un’inversione dell’onere della prova. Si colpevolizza l’imputato di non essere riuscito a provare di essere altrove quando non c’è nessuno che lo accusa di essere stato presente”.
Le motivazioni rischiano di avere pesanti ripercussioni sulla valutazione della richiesta di riparazione per errore giudiziario che l’avvocato Trogu intende presentare. Insomma, dopo aver passato 33 anni in carcere ingiustamente, Zuncheddu rischia pure di vedersi negato dallo stato italiano un risarcimento degno di questo nome.