la persecuzione

Cosa ci dice la nuova indagine su Mori sulla giustizia impazzita

Giuseppe Sottile

L’indagine fiorentina contro l’ex capo dei Ros ci ricorda cosa vuol dire avere una giustizia impunita. Palermo gli ha rubato oltre metà della vita, Firenze ha pensato bene di avvelenargli quel poco che ancora gli resta di vivere

Fateci caso. Ogni anno, quando si avvicina il 23 maggio – giorno tragico in cui fu massacrato sull’autostrada di Capaci il giudice Giovanni Falcone – i magistrati antimafia lanciano un ruggito di verità e giustizia. Ogni anno, alla vigilia del 23 maggio, noi vecchi cronisti abbiamo puntualmente assistito a clamorose retate di persone “insospettabili” finite in manette sotto il peso di accuse ovviamente “solide e argomentate”; a rivelazioni di pentiti che, manco a dirlo, avrebbero dovuto riscrivere addirittura la storia dell’Italia; ad avvisi di garanzia spiccati a grappolo per “inchiodare” finalmente all’albero della gogna protagonisti e comprimari di patti occulti e scellerati tra i boss di Cosa nostra e i servizi deviati.

 

Quest’anno, trentaduesimo anniversario della strage di Capaci, la vittima sacrificale che viene deposta sull’altare elevato in memoria di Falcone, è il generale Mario Mori, ex comandante del Ragruppamento operativo dei carabinieri, al quale la procura di Palermo ha già rubato oltre metà della vita con un processo farlocco che si è trascinato dal 2010 fino al 2023 e che lo ha visto assolto da tutte le accuse: la sentenza d’appello, confermata dalla Cassazione, ha stabilito che non aveva coperto le nefandezze dei sanguinari corleonesi di Totò Riina; che nella sua carriera di servitore dello stato non c’erano segreti inconfessabili; che la sua “trattativa” con Vito Ciancimino, corleonese come Riina ed ex sindaco democristiano di Palermo, non aveva avuto altro scopo se non quello di fermare il fiume di sangue che scorreva in terra di Sicilia a causa di una selvaggia guerra di mafia che vedeva da un lato l’indomabile cosca di Riina e, dall’altro, i picciotti di Stefano Bontade, detto il Principino, e Michele Greco, detto il Papa.

 

Il generale Mori chiuse quella stagione maledetta con la cattura di Riina, il capo dei capi, ammanettato dopo 23 anni di latitanza. Ma questo dettaglio non impedì ai coraggiosi magistrati della procura palermitana, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, di imbastire dieci anni dopo un maxi processo e di portare alla sbarra non solo Mori ma anche altri due alti ufficiali del Ros, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Montarono un processo senza capo né coda, senza prove e senza movente, costruirono le accuse sulle patacche di Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito, e le incardinarono con la velleità di tirarci dentro il senatore Marcello Dell’Utri e, sotto traccia, quell’inafferrabile reprobo della politica che rispondeva al nome di Silvio Berlusconi. 

 

Finì come finì. Però, cosa volete che significhi un’assoluzione per una magistratura antimafia che si ostina a definire “un colpo di spugna” la sentenza con la quale la Cassazione ha fatto a pezzi il processo sulla fantomatica Trattativa. L’onnipotente giustizia italiana, se occorre, sa anche risorgere dalle ceneri. E infatti, chiuso il girone infernale di Palermo, per Mori si apre – con un interrogatorio fissato con esattezza millimetrica per le ore 16 del 23 maggio 2024 – un nuovo calvario, una nuova gogna, una nuova persecuzione. La procura di Firenze ha deciso di indagarlo per le stragi del ’93, cioè quelle dei Georgofili, di Milano e Roma. I pubblici ministeri lo accusano di associazione mafiosa con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico. Sostengono che sapeva delle carneficine programmate dalla mafia – in combutta, naturalmente, con i “poteri occulti” – ma non ha fatto nulla per prevenirle. Roba da fare tremare i polsi. Palermo gli ha rubato oltre metà della vita. Firenze ha pensato bene di avvelenargli quel poco che ancora gli resta di vivere.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.