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L'editoriale del direttore

La Corte europea dei diritti dell'uomo prende a ceffoni la malagiustizia. Evviva!

Claudio Cerasa

La Cedu dice che l’Italia, sulle intercettazioni, è doppiamente nemica dei diritti dell’uomo. Brutta giornata per il partito dello sputtanamento

È stata una giornata triste quella di giovedì per il partito dello sputtanamento (Pds): quasi da lutto al braccio. È una giornata diremmo quasi drammatica per tutti coloro che negli ultimi anni hanno cercato di affermare un’idea tossica all’interno del dibattito pubblico. Un’idea che, grosso modo, potremmo provare a sintetizzare così: il compito principale della giustizia non è solo quello di smascherare il malaffare della società, ma è anche quello di fare emergere i comportamenti immorali dei cittadini più potenti. E per avvicinarsi a questo importante obiettivo, i magistrati italiani hanno tutto il diritto di mettere l’apparato giudiziario al servizio non solo della giustizia ma anche della moralità. E di conseguenza hanno il dovere etico di offrire alla libera stampa materiale utile per poter costruire, con la complicità dei cronisti giudiziari trasformatisi all’occorrenza in buca delle lettere delle veline delle procure, l’imprescindibile processo mediatico, necessario per offrire al tribunale del popolo le giuste coordinate per condannare moralmente anche chi non ha sufficienti prove per essere condannato in un’aula giudiziaria.
 

L’altro ieri, dicevamo, per il partito dello sputtanamento, è stato un giorno drammatico. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto all’unanimità che vi sia stata violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della privacy, vita privata e corrispondenza) della Convenzione Cedu su un caso particolare: l’intercettazione e la trascrizione delle comunicazioni telefoniche di Bruno Contrada nell’ambito del procedimento sull’omicidio di Nino Agostino in cui l’ex funzionario del Sisde non era imputato né indagato.
 

Sentite cosa dice la Cedu: “La Corte ha concluso che la legge italiana non offriva garanzie adeguate ed effettive contro gli abusi alle persone che erano state sottoposte a una misura di intercettazione ma che, non essendo sospettate o accusate di coinvolgimento in un reato, non erano parti nel procedimento. In particolare, nessuna disposizione prevedeva che tali soggetti potessero rivolgersi a un’autorità giudiziaria per un controllo effettivo della legittimità e della necessità della misura e per ottenere un adeguato risarcimento, a seconda dei casi”. Se non fosse sufficientemente chiaro, il più importante organo europeo che si occupa della tutela dei diritti dell’uomo dice che l’Italia, sulle intercettazioni, è doppiamente nemica dei diritti dell’uomo. Consente che vi sia un meccanismo che permette di intercettare, e dunque di sputtanare, persone che sono estranee alle indagini. E non consente alle persone che hanno subìto un danno da queste intercettazioni, in quanto sputtanate, di avere un risarcimento.
 

La questione dovrebbe essere chiara: il modo in cui i magistrati italiani interpretano l’articolo 267 del Codice di procedura penale, quello che consente al pm di approvare le intercettazioni con decreto motivato quando vi sono “gravi indizi di reato”, è un modo del tutto sballato che, puntando sui sospetti e non sulle prove, offre al magistrato la possibilità di intercettare chiunque, grazie a quella mostruosità chiamata intercettazione a strascico.  Nel momento in cui si vengono a toccare i diritti fondamentali, come la privacy,  le garanzie nei confronti delle persone non indagate devono essere massime e l’idea che qualunque persona non indagata possa “spuntare” in un’intercettazione solo perché quel nome intercettato può aiutare il processo mediatico a  supportare delle indagini fatte con i piedi, senza prove, senza reati, senza pistola fumante, è un’idea che può funzionare bene negli stati totalitari ma è un’idea che non si adatta bene a chi ha a cuore i valori non negoziabili dello stato di diritto. C’è un giudice in Europa. Ad ascoltarlo, oltre che i legislatori, dovrebbero essere anche coloro che hanno scelto di trasformare il giornalismo in uno spettacolo degno dello zoo, dove accanto ai rinoceronti, alle foche, alle giraffe spiccano, dietro le vetrate, i velenosi pappagalli delle procure.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.