Misure (in)cautelari
Il dramma sociale della carcerazione preventiva dei povericristi
Mettere in cella gli indagati è un abuso su cui si tace dai tempi di Mani pulite. Oramai è diventata un'abitudine di desolazione e rassegnazione
Si sa che un terzo dei detenuti in Italia è statisticamente da considerare non colpevole, lo dicono i processi successivi o coevi alle spesso lunghe, inutili, dannose detenzioni preventive. Sappiamo anche che una specie di teoria legale surrettizia dice che non esistono innocenti ma solo colpevoli “in attesa” di essere scoperti. Parliamo spesso di povericristi, di persone che fanno una vita non integrata, che sono dentro per imputazioni a volte risibili, che non godono di protezione legale adeguata, e che quasi nessun occhio politico istituzionale o sociologico inquadra mai a sufficienza tra i fattori di sofferenza umana e sociale più pesanti. Conosciamo la differenza fra gli incarcerati per reati sociali e i cosiddetti colletti bianchi, che vivono la stessa condizione in modi generalmente meno disumani. Sappiamo anche che la detenzione preventiva e il suo uso giudiziario diffuso come pressione per imbastire processi periclitanti o fragili nelle loro fondamenta di indagine possono essere, nel caso di gente eletta per fare amministrazione e politica come in altri casi di giustizia penale ordinaria, strumenti del tutto illegittimi per cercare le prove attraverso la pressione personale dell’isolamento coatto. Nello stato di diritto, quando non esistano seri elementi che giustifichino la messa al bando degli indagati in un’inchiesta criminale, la reclusione o l’arresto a domicilio protratti nel tempo, condizioni che scandiscono settimane e mesi di interrogatori e ricerca delle prove, sono uno scandalo intollerabile o che dovrebbe essere considerato intollerabile. Nessun cittadino presunto innocente dovrebbe essere ristretto “in attesa” di essere scoperto colpevole. A Genova ormai da quasi un mese un certo numero di indagati del ceto politico amministrativo e imprenditoriale è sotto sequestro, ovvero sottoposto a detenzione preventiva in carcere o agli arresti domiciliari.
Dall’epoca delle indagini milanesi dell’inizio anni Novanta del secolo scorso a questa procedura siamo ormai abituati, anche se è un’abitudine di desolazione e di rassegnazione. Gli indagati sono dentro, teoricamente, perché non fuggano, perché non inquinino le inchieste, perché non ripetano i reati, ma è convinzione comune che la vera ragione, patente all’epoca di Mani pulite e oggi appena dissimulata da modi meno impresentabili, è un’altra. Gli arresti a grappolo, le retate dei politici, le lunghe carcerazioni preventive furono notoriamente un modo spurio e illegale di gestire i processi, di ottenere confessioni sotto minaccia, di dare la stura a dimissioni a catena, e di dare un colpo politico definitivo al sistema dei partiti e a chi lo rappresentava, fino al cambiamento coatto della Costituzione e delle sue guarentigie a difesa della divisione dei poteri. Quello schema di giustizialismo penale non è superato. A Genova, per esempio, i magistrati indagano da quattro anni su corruzione e altro. Molto tempo per ottenere indizi concordanti e significativi, per cercare e trovare prove e giustificare incriminazioni, vista anche la piena disponibilità di intercettazioni a strascico, dirette o ambientali. Ora invece si dice, ragionevolmente, che i pm sono “a caccia” della prova, il che è palesemente assurdo e antigiuridico, visto che le prove sono o dovrebbero essere materiali d’accusa documentali e testimoniali in base ai quali si procede, ed eventualmente ci si può cautelare temporaneamente con la tecnica di polizia dell’arresto degli indagati. Ma che cosa impedisce di continuare a cercare elementi di accusa con gli indagati a piede libero? Niente. Salvo il fatto che il prezzo della libertà personale potrebbe essere l’inclinazione acquisita ad accusare e a testimoniare contro questo o quell’indagato. Questi metodi vanno avanti nel tempo, fanno sempre meno notizia, sono considerati scontati, i media discettano sull’interpretazione più o meno abusiva delle intercettazioni e perfino dei verbali di interrogatorio, dove un lecito diventa illecito per assonanza malevola, e il risultato è un sequestro giudiziario collettivo. Il dramma sociale della carcerazione preventiva dei povericristi è tremendo, questo sequestro è attutito dalle condizioni dei sequestrati, ma dal punto di vista della corruzione e consunzione dello stato di diritto, e degli effetti balordi sulla politica e l’opinione, è altrettanto pericoloso e scandaloso.