Toti e la poca cautela delle misure cautelari

Luciano Capone

Finché è presidente della Liguria deve stare ai domiciliari, ma se è ai domiciliari non può fare il presidente della Liguria. Come mai per i politici il rischio di reiterazione del reato è più forte rispetto ai magistrati? Il caso De Pasquale

L’inchiesta  della procura di Genova sul porto e sui rapporti tra l’imprenditore Aldo Spinelli e il governatore Giovanni Toti è stata criticata da destra come esempio di “giustizia a orologeria”. Ma più che per i tempi – in Italia ci sono sempre importanti elezioni  – la vicenda ligure dovrebbe far riflettere per l’uso, o meglio l’abuso, delle misure cautelari. Perché se un incarico istituzionale è compatibile con il ruolo di indagato, non lo è con quello di arrestato.

Il gip ha sottoposto il presidente della regione Liguria agli arresti domiciliari per “il pericolo attuale e concreto che l’indagato commetta altri gravi reati della stessa specie”, ovvero che “possa reiterare, in occasione delle prossime elezioni, analoghe condotte corruttive, mettendo la propria funzione al servizio di interessi privati in cambio di utilità”. In sostanza, c’è il rischio che Toti possa reiterare il reato e pertanto gli viene impedito di svolgere il ruolo per cui è stato democraticamente eletto. Finché è presidente di regione deve stare ai domiciliari, ma se è ai domiciliari non può fare il presidente di regione. Pertanto, per tornare il libertà Toti è costretto a dimettersi. È la decisione presa dal suo braccio destro, Matteo Cozzani, indagato per le stesse ipotesi di reato, che ieri si è dimesso da capo di gabinetto della regione per riavere la libertà.

Nel caso di Toti, però, c’è in ballo qualcosa di più della sua condizione personale: il voto democratico e il destino della Liguria. Toti, che si è sottoposto a un lungo interrogatorio rispondendo a centinaia di domande, sta cercando di resistere, di riuscire a far rimuovere i domiciliari. Ma in questo braccio di ferro con la procura il fattore tempo gioca contro di lui: se le cose vanno per le lunghe, inevitabilmente, sarà costretto a fare un passo indietro per liberare la regione dalla paralisi istituzionale.

Ma è normale un’interferenza del genere nella vita politica da parte della magistratura? Il problema, come si diceva, non sono le doverose indagini per appurare eventuali gravi reati. Questa attività può essere svolta senza stravolgere la vita politica della regione, nel rispetto sia del voto democratico sia della presunzione di innocenza: l’attività istituzionale della regione e l’eventuale processo possono essere svolti in parallelo.

Un esempio è il caso di Michele Emiliano, pm e presidente della regione Puglia, che è stato indagato insieme al suo allora capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi, per finanziamento illecito. All’epoca i due non furono sottoposti a misure cautelari e questo ha consentito a Emiliano di continuare a governare e, parallelamente, di partecipare al processo in cui è stato assolto. Nello stesso processo Stefanazzi è stato condannato in primo grado, ma ciò non gli ha impedito da imputato di candidarsi ed essere eletto alla Camera con il Pd. Se fosse stato messo ai domiciliari, Emiliano avrebbe dovuto dimettersi (tornando a fare il magistrato?) e la Puglia sarebbe passata al centrodestra. Esattamente ciò che è accaduto in Basilicata, dove l’allora governatore del Pd Marcello Pittella fu arrestato e dopo anni è stato assolto. Ma intanto la Basilicata ha cambiato colore politico.

Si può obiettare che per chi ha incarichi importanti non solo devono valere le stesse regole che si applicano agli altri cittadini, ma servono cautele superiori. In astratto, il ragionamento potrebbe anche avere un senso. Ma  le evidenze mostrano che le misure cautelari vengono applicate ai politici, mentre per i magistrati si usano standard molto più soft, nel rispetto più ampio delle garanzie individuali.

Due esempi. Per anni c’è stato un pm a Trani e poi a Bari, Michele Ruggiero, imputato per violenza privata: minacciava i testimoni negli interrogatori. Nel suo caso i colleghi – a proposito di separazione delle carriere – non hanno mai intravisto un pericolo di reiterazione del reato. Ruggiero ha continuato a fare il pm per anni, dopo le tre condanne fino in Cassazione e anche oltre, persino dopo un provvedimento disciplinare del Csm. Nel frattempo arrestava sindaci che, solo perché indagati, erano costretti a dimettersi mentre lui, già condannato, poteva continuare a svolgere la sua funzione. Il secondo caso, più celebre, è quello del pm Fabio De Pasquale della procura di Milano, che dopo aver perso clamorosamente il processo Eni-Nigeria è imputato a Brescia per aver nascosto delle prove importanti per la difesa. De Pasquale continua a fare il pm.

La turbativa d’asta si reitera, la turbativa di processo no. Ma com’è che con i politici il rischio di reiterazione del reato è più forte rispetto ai magistrati? C’è una tara ontologica? Sulle misure cautelari servirebbe forse maggiore prudenza quando sono coinvolti politici che hanno un mandato elettivo democratico, rispetto a funzionari che svolgono ruoli impersonali come quello di pubblico ministero, ma quantomeno basterebbe applicare lo stesso standard a politici e magistrati.

Se dopo averlo costretto alle dimissioni Toti verrà assolto, il danno democratico sarebbe irrimediabile. E chi ne risponderà? Nessuno.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali