persecuzione senza fine

Il calvario di Mario Mori

Ermes Antonucci

L’ex capo del Ros, oggi 85enne, di nuovo sotto indagine per le stragi mafiose dopo 25 anni di processi e tre assoluzioni. “Combattivo, sereno, ma anche un po’ incazzato”: così, chi gli sta attorno, descrive lo stato d’animo del generale. La solidarietà dell’Arma e la solita gogna

"Combattivo, sereno, ma anche un po’ incazzato”. Così chi gli è vicino descrive lo stato d’animo del generale Mario Mori, ex capo del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei Carabinieri e del Sisde, alle prese con l’ultimo capitolo della crociata mediatico-giudiziaria che lo tormenta da oltre venticinque anni. Si pensava fosse finita lo scorso anno, con l’assoluzione definitiva nel processo sulla fantomatica “trattativa stato-mafia”. La terza assoluzione per Mori, dopo le due incassate nei processi per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina (catturato proprio dal generale) e il presunto mancato arresto di Bernardo Provenzano. A 84 anni, di cui oltre quaranta trascorsi al servizio dell’Arma, Mori credeva che la persecuzione nei suoi confronti fosse finita. Invece la procura di Firenze – pm Luca Tescaroli, Luca Turco e Lorenzo Gestri – ha deciso di riesumare i teoremi palermitani, indagando di nuovo l’ex capo del Ros per le stragi mafiose del 1993 per strage, associazione mafiosa, terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico.

 

L’accusa è di “non aver impedito mediante doverose segnalazioni e denunce all’autorità giudiziaria, ovvero con l’adozione di autonome iniziative investigative e preventive, gli eventi stragisti di cui aveva avuto anticipazioni”. Il riferimento è agli eventi che si sono verificati tra il 1993 e il 1994: le stragi del 1993 a Milano e Firenze, gli attentati a Roma contro le basiliche di San Giorgio e San Giovanni, e contro Maurizio Costanzo, infine l’attentato fallito allo stadio Olimpico del gennaio 1994.

 

Su queste pagine abbiamo già evidenziato la gigantesca contraddizione che avvolge l’ennesima iniziativa giudiziaria contro Mori: dopo essere stato processato per anni a Palermo con l’accusa di essersi attivato per fermare le stragi, avviando una “trattativa” illecita con pezzi di Cosa nostra in seguito all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l’ex comandante del Ros viene ora indagato con l’accusa di non aver fatto nulla per fermare quelle stesse stragi. Insomma, bocciata clamorosamente dai giudici della Cassazione, l’ipotesi accusatoria avanzata dai pm palermitani viene ora raccolta dai colleghi fiorentini e ribaltata per tenere alla sbarra Mori. 

 

La procura di Firenze ci ha abituato a inchieste fantasiose. L’indagine su Mori è infatti parallela a quella (ri)aperta lo scorso anno, sempre da Tescaroli e Turco, contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, accusati di essere i mandanti esterni delle stragi continentali di Cosa nostra. Nell’ottica dei pm (in particolare Tescaroli, che condusse un’inchiesta simile già alla fine degli anni Novanta a Caltanissetta), le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano servirono “per indebolire il governo Ciampi” che in quel momento era alla guida del paese e avevano l’obiettivo di “diffondere il panico e la paura tra i cittadini, in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”. Fantagiustizia. Morto Berlusconi, però, occorreva un nuovo indagato eccellente. Ed eccoci a Mori. 

 

L’ex capo del Ros ha ricevuto l’avviso di garanzia lo scorso 16 maggio, giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, con invito a comparire per essere interrogato. Inizialmente Mori era stato convocato dalla procura il 23 maggio, giorno dell’anniversario della strage di Capaci, in cui morì anche Giovanni Falcone. L’interrogatorio è poi slittato e si è tenuto mercoledì scorso, giorno del 210° anniversario di fondazione dell’Arma dei Carabinieri, alla quale Mori ha dedicato tutta la sua vita. Altro che coincidenze. Persino la scelta delle date mostra l’intento di macchiare il più possibile l’immagine di un leale servitore dello stato. 

 

Mori, riferiscono al Foglio, “sta affrontando questa ennesima accusa con la serenità e la determinazione di sempre”. In fondo, confidano, “il generale è sempre stato abituato, per la sua professione, ad avere una controparte, un avversario”. Un’attitudine al combattimento, introiettata fin dagli anni della sua formazione militare, e poi consolidata durante il periodo della lotta al terrorismo (condotta sotto la guida di Carlo Alberto dalla Chiesa, il suo maestro) e in seguito alla mafia. Un’attitudine che, unita a un fiuto investigativo fuori dal comune, spiega molto della prestigiosa carriera conseguita all’Arma. 

 

L’iniziativa fiorentina, seppur supportata dalle solite testate che diedero credito al teorema sulla Trattativa, stavolta ha però generato reazioni istituzionali indignate. Con una decisione senza precedenti, il Comando generale dei Carabinieri ha emesso un comunicato stampa per esprimere vicinanza a Mori, “che, con il suo servizio, ha reso lustro all’istituzione in Italia e all’estero, confidando che anche in questa circostanza riuscirà a dimostrare la sua estraneità ai fatti contestati”. La stessa “vicinanza” gli è stata manifestata da Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che ha ricevuto l’ex capo del Ros la sera del 20 maggio: “Gli eccezionali risultati che la dedizione e l’impegno del generale Mori hanno permesso di conseguire esigerebbero solo gratitudine da parte delle istituzioni nei suoi confronti. Tutte le istituzioni, magistratura inclusa”, ha dichiarato Mantovano. Anche il ministro della Difesa Guido Crosetto ha espresso solidarietà al generale. 

 

“Quelle a mio carico, com’è agevole a tutti comprendere, sono accuse surreali e risibili se tutto ciò non fosse finalizzato alla gogna morale che sarò costretto a subire ancora per chissà quanti anni”, ha commentato dal canto suo Mori. “Dopo una violenta persecuzione giudiziaria che mi ha visto imputato in ben tre processi, nei quali sono stato sempre assolto – ha aggiunto – credevo di poter trascorrere in tranquillità quel poco che resta della mia vita. Ma devo constatare che, evidentemente, certi inquirenti continuano a proporre altri teoremi, non paghi di cinque pronunce assolutorie e nemmeno della recente sentenza della Suprema Corte che, nell’aprile scorso, ha sconfessato radicalmente le loro tesi definendole interpretazioni storiografiche”. 

 

Anche stavolta il circo mediatico-giudiziario si è attivato come da tradizione. Giovedì scorso, il giorno dopo l’interrogatorio (segreto) di Mori, l’edizione fiorentina di Repubblica ha pubblicato alcune notizie coperte da segreto investigativo, come quella secondo cui il generale si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere, e soprattutto i contenuti di una testimonianza resa da Mori alla procura di Firenze il 17 maggio 2023 come persona informata sui fatti. 

 

Secondo i pm fiorentini, Mori nel 1993 non si sarebbe attivato per evitare le stragi nonostante avesse ricevuto informazioni “prima, nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta, informato dall’esponente della destra eversiva Paolo Bellini che gli avrebbe anticipato le bombe al patrimonio storico, artistico e monumentale e, in particolare, alla Torre di Pisa” e, qualche tempo dopo, dal pentito Angelo Siino, che “durante il colloquio investigativo intercorso a Carinola il 25 giugno 1993, gli aveva espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al nord”. 

 

Secondo quanto riportato da Repubblica, durante la sua testimonianza a Firenze di un anno fa, l’ex capo del Ros “ha confermato di non aver riferito all’autorità giudiziaria le rivelazioni di Bellini – apprese col tramite del maresciallo Tempesta – spiegando di non averlo fatto neanche dopo la strage di via dei Georgofili il 27 maggio 1993. Ha inoltre sostenuto di aver distrutto il biglietto a cui faceva riferimento Tempesta. Poi, alla richiesta di spiegazioni sul perché avesse trascurato la pista investigativa: ‘Avevo altro da fare in quel periodo’”. Tanto è bastato al quotidiano per riassumere la vicenda in questo modo: “Sulla mancata comunicazione dell’allerta ricevuta su possibili attentati l’ex generale ha spiegato: ‘Avevo da fare’”, fornendo così l’immagine di un ufficiale del Ros fannullone se non colpevolmente inerte. Insomma, l’ennesima colata di fango. 

 

A parte la violazione del segreto investigativo, a colpire è la debolezza dell’ipotesi accusatoria della procura di Firenze, rilanciata con grande enfasi da Repubblica.

 

Il caso Bellini, infatti, è già stato valutato nel processo sulla trattativa stato-mafia e si è rivelato essere un grande bluff. 
Il 25 agosto 1992 Tempesta, all’epoca maresciallo del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri, si recò da Mori dicendogli che Bellini, che aveva contattato per ritrovare opere d’arte rubate dalla Pinacoteca di Modena, aveva proposto di infiltrarsi in Cosa nostra, grazie alle sue conoscenze con personaggi siciliani. “Bellini – disse Tempesta il 16 maggio 2014, sentito nel processo sulla Trattativa – mi aveva proposto di farmi recuperare 17 dipinti, di cui mi mostrò le foto, e in cambio, per conto di queste persone, chiese gli arresti ospedalieri o domiciliari di cinque figure. Mi diede persino un biglietto con scritti cinque nomi” di boss mafiosi, tra i quali Pippò Calò, Luciano Liggio e Bernardo Brusca. Tempesta riferì a Mori anche le parole di Bellini su possibili iniziative da parte dei mafiosi, come la disseminazione di siringhe infette sulle spiagge di Rimini o un attentato alla Torre di Pisa.

 

Mori conosceva bene la figura di Bellini dai tempi della strage di Bologna e lo riteneva un personaggio di scarso spessore mafioso e quindi sostanzialmente inutilizzabile come potenziale infiltrato. Per questo Mori disse a Tempesta che era “una via impraticabile”, anche perché i nomi scritti sul fogliettino rappresentavano il gotha della mafia e una trattativa con loro era impensabile. Poche settimane dopo Bellini rivolse la stessa proposta a Francesco Messina, responsabile del settore investigativo della Dia (Direzione investigativa antimafia) di Milano. Anche Messina la ritenne inaccettabile. Come se non bastasse, nel corso del processo sulla Trattativa è emerso che la via prospettata da Bellini era stata considerata impraticabile persino da Tempesta, che comunque non aveva alcuna esperienza nell’ambito della lotta alla mafia. Insomma, tutte le persone interpellate all’epoca ritennero non credibili le rivelazioni di Bellini. Eppure, sulla base di non si sa quale criterio, i pm fiorentini pensano che Mori avrebbe dovuto seguire quella pista, magari incatenandosi alla Torre di Pisa o sorvegliando le spiagge di Rimini. 

 

La verità, insomma, è che, saltato in aria Falcone, saltato in aria anche Borsellino, nell’estate del 1992 Mori aveva ben altro a cui pensare che andare dietro alle rivelazioni di Bellini, un non mafioso ritenuto non attendibile da chiunque. L’allora responsabile del primo reparto del Ros stava cercando, attraverso i contatti con Ciancimino e altre attività investigative condotte sul campo, di ottenere informazione e apprestare una reazione alle stragi di Cosa nostra, per arrivare a catturare Riina e gli altri boss. In altre parole, Mori aveva “altro da fare” in questo senso, non nel senso che si preoccupava di portare a spasso il cane ai giardinetti, come Repubblica sembra lasciar intendere. 

 

Anche le presunte rivelazioni fatte da Angelo Siino a Mori nel giugno 1993, l’altro caposaldo dell’accusa fiorentina, si sono in realtà già rivelate inconsistenti in sede giudiziaria. Secondo l’ipotesi accusatoria, agli inizi del 1993 Siino venne a conoscenza di piani stragisti di Cosa nostra tramite il boss Antonino Gioè. Quest’ultimo avrebbe detto a Siino che il boss Leoluca Bagarella avrebbe dovuto incontrarlo per avviare contatti con Bettino Craxi, e che lo stesso Bagarella stava assumendo posizioni dominanti in Cosa nostra dopo l’arresto di Riina (tanto da intimorire anche Provenzano), progettando azioni eclatanti in danno di monumenti ed edifici di interesse artistico, tra i quali la Torre di Pisa. Questa operazione aveva come scopo quella di sconvolgere l’Italia, dando a Craxi la possibilità di proporsi come colui che poteva riprendere in pugno la situazione. 

 

Questa ricostruzione, piuttosto ridicola, è stata ritenuta inattendibile dal gip di Caltanissetta che nel 2002 ha archiviato il procedimento per le stragi del 1992 contro Berlusconi e Dell’Utri. In quella decisione, infatti, si legge: “Questo tipo di ricostruzione, assai difficile da riscontrare con dati estrinseci, fa riferimento a un progetto velleitario e di ben scarsa praticabilità nel periodo delle stragi, quando comunque il ruolo politico di Craxi era irrimediabilmente compromesso dagli esiti delle indagini della procura di Milano e dai contrasti interni al suo partito (sul punto le risultanze di cui alla nota della Dia del 5/2/1998); sicché non offre elementi di specifica coerenza al quadro indiziario in esame”. 

 

In definitiva, l’ennesima iniziativa giudiziaria contro Mori si basa su una serie di bufale già accertate come tali. Tutto ciò però è sufficiente per riattivare il solito circo mediatico-giudiziario. E mantenere nel calvario il generale 85enne. Che si ostina a ripetere: “Combattere mi allunga la vita”. 

Di più su questi argomenti:
  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]